LO SGUARDO DEGLI ALTRI

grQuello nella fotografia è Franz Kafka, di cui Gustav Janouch dice:
“Pareva che la sua figura dicesse: Scusate, io sono del tutto insignificante. Mi fareste un grande piacere non accorgendovi di me” (Gustav Janouch, Colloqui con Kafka, in Franz Kafka, Confessioni e diari ed. Mondadori, p.1068).
In effetti, cercando di cogliere l’interiorità dello scrittore attraverso la sua immagine, si resta immediatamente colpiti dal suo sguardo grave, come appesantito dalla lunga sopportazione di una colpa indefinita che Kafka ha sempre sentito di avere e per la quale sembra scusarsi a chi lo osserva. Questa colpa pare configurarsi come un costante “non essere all’altezza”, che rafforza in qualche modo la volontà di farsi fotografare nella speranza di conferire una certa solidità alla propria figura.
Le sopracciglia leggermente aggrottate tradiscono un’insicurezza nervosa: l’immagine che l’autore offre al fotografo e ad ogni potenziale osservatore non lo soddisfa, ed è segnata dal fatto che lo scrittore non può fare a meno di chiedersi se qualcuno potrebbe mai apprezzarne la vista e magari addirittura cogliere qualcosa di chi lui è veramente.
La bocca però mostra un incerto mezzo sorriso, espressione della speranza irrinunciabile che sia per lui possibile accattivarsi l’osservatore, sviluppare quasi un’amichevole confidenza con chi lo guarda. Quel mezzo sorriso è disegnato sulla faccia di Kafka dalla voglia insopprimibile di riconoscimento. Non arriva a coinvolgere l’intera bocca perché questa speranza è così flebile da correre in ogni momento il rischio di essere scoperta come pura illusione.
La posizione stessa assunta dallo scrittore, non perfettamente frontale, manifesta tutta la sua timidezza: egli non sfida l’osservatore, non si offre all’occhio altrui con forza d’imposizione. Al contrario, sembra provare a “infilarsi” nel campo visivo dell’altro occupando meno spazio possibile, così che la sua muta richiesta d’attenzione non arrivi a disturbare chi osserva.
Lo sguardo fisso, la postura, l’espressione del viso sono volti alla ricerca di qualcuno in grado di riconoscerlo (e pertanto anche alla ricerca di se stesso) e di ricambiare lo sguardo, ma lo fanno sommessamente, indeboliti dalla fragilità della speranza che li muove e dalla scarsa stima che l’autore ha di se stesso.
Io guardo la fotografia e l’immagine mi racconta questo Kafka, ma, pur cercando di valutare solo in base a ciò che vedo, le mie riflessioni sono influenzate da ciò che so dell’autore, da ciò che ho letto di lui e su di lui. In qualche modo, Kafka per me ricopre già un “ruolo” determinato e non posso escludere che, quindi, il suo sguardo mi racconti di lui solo ciò che io voglio leggerci, erigendo così un muro ideale tra me e l’interiorità dello scrittore.
In virtù di questo dubbio, ho voluto mostrare questa stessa immagine a diverse persone che non avevano idea di chi fosse l’uomo ritratto nella fotografia, chiedendo loro un parere sul tipo di individuo che gli avevo messo davanti agli occhi. Le loro risposte offrono, a parer mio, spunti interessanti. Mi permetto quindi di elencarle:
-“La bocca stretta, lo sguardo fisso e le sopracciglia aggrottate mi fanno pensare che non sia una persona per bene, forse addirittura un criminale, non mi fiderei mai di lui.”
-“Lo guardo ma non riesco a creare un contatto, secondo me è una persona imprevedibile, potrebbe rivoltartisi contro da un momento all’altro e ferirti inaspettatamente.”
-“I suoi occhi ti passano attraverso come quelli di un inquisitore, ne avrei paura.”
-“Sembra introverso, quasi paranoico, deve avere molti problemi di relazione. Probabilmente mi piacerebbe relazionarmi con lui , ma sarebbe lui a rifiutarmi.”
-“Mi dà l’impressione di volersi offrire al fotografo e agli spettatori, alla ricerca di un contatto. La compostezza formale della foto sembra metterlo a disagio, come se volesse essere all’altezza di qualcosa ma non ne fosse sicuro.”
-“Lo sguardo sembra assorto in un suo privato mondo di riflessioni, ma la fronte distesa mi fa pensare che sia innocuo. Mi chiedo però come mai non provi imbarazzo a farsi vedere dal fotografo così preso in questioni personali.”
A questo punto non è importante cercare di stabilire chi si sia avvicinato di più alla verità di Kafka, ammesso che qualcuno l’abbia fatto e che farlo sia possibile, è interessante piuttosto analizzare rapidamente le espressioni dello sguardo degli altri: molti sono immediatamente portati a riconoscere nell’altro (in questo caso Kafka) il nemico, il pericolo, colui che potrebbe aggredirli, in un certo senso il “colpevole”. Si sentono istintivamente minacciati. Altri hanno reazioni diametralmente opposte, lo vedono insicuro ed innocuo, ma riflettono su se stessi l’insicurezza dell’uomo raffigurato fino a far emergere il dubbio di poter essere rifiutati da lui, di essere loro stessi quelli “non all’altezza”.
Infine è interessante il riferimento all’atteggiamento di Kafka nei confronti di chi lo osserva: viene giudicata “sconveniente” la presunta immersione dell’autore in questioni da cui l’altro, che pure in quel momento gli è davanti e lo sta fotografando, è irrimediabilmente escluso. Quindi non solo lo sguardo altrui è capace di riconoscerci colpevoli e condannarci, non solo il timore del rifiuto è presente sia in chi osserva che in chi è osservato perché si è sempre contemporaneamente in entrambe le posizioni, ma l’essere visti conferisce anche dei doveri: nel momento in cui si è guardati bisogna essere in un certo modo.
Considerando la controversa tematica del “potere” dello sguardo degli altri, ho ripensato a ciò che Proust, attraverso una metafora inerente al mondo della fotografia, sostiene: secondo lo scrittore francese il tempo reale che viviamo non è altro che il negativo di ciò che in seguito svilupperemo. Se spostiamo questa riflessione dalla dimensione cronologica a quella sociale, si può sostenere che noi stessi non siamo altro che il negativo di ciò che saranno gli altri, in virtù del loro sguardo fisso su di noi, a sviluppare. Chi si è nel mondo reale dipende, inesorabilmente e in tanti modi diversi, da chi ci osserva. Persino il guardarsi allo specchio o in una fotografia, che è una sorta di cristallizzazione dell’altrimenti mobile immagine riflessa, innesca il meccanismo osservatore-osservato volto a definirci. Noi stessi, in quest’ultimo caso, assumiamo la posizione dello sguardo degli altri osservando la nostra stessa immagine. Si può quindi essere “visti” anche quando si è soli.
Con questo non voglio dire che una qualche verità personale, un’interiorità pura, non esiste, ma che questa risulta essenzialmente inaccessibile allo sguardo esterno e il rapporto che si sviluppa tra osservatore e osservato (tenendo a mente che tutti ricoprono sempre contemporaneamente entrambi i ruoli) è tanto complesso quanto fondamentale per l’individuo, che non può in ogni caso smettere di desiderare il raggiungimento dell’”anima”. Quella tra colui che vede e colui che è visto è una relazione insopprimibile che ha tante diverse facce e può essere almeno in parte compresa solo se si tenta di considerarne quante più possibile.
Citando Orwell, è vero che il “grande fratello” ti sta in qualche modo guardando ed è vero tutto ciò che ne consegue, ma non si può sorvolare sul fatto chiunque, nessuna eccezione, è parte attiva del suo enorme occhio.

Giulia Righetti

Un commento

  1. Sì, è sempre fluida l’immagine che abbiamo di noi stessi, ma anche degli altri ovviamene, e questo mi ha sempre in qualche modo lievemente inquietato, ma ora leggendo l(accenno alla nostra immagine di noi attraverso lo specchio, mi sono chiesta come ci rapporteremmo a noi stessi se non esistessero specchi. Se non potessimo mai vederci ma fossimo solo visti. E’ difficile da immaginare eppure è un’ipotesi.

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