Recentemente scomparso (luglio 2014), Roberto Vivarelli è stato uno dei massimi storici del fascismo, docente di Storia Contemporanea alla Normale di Pisa, e visiting professor ad Oxford, Harvard e Princeton.
In questo libro autobiografico ripercorre il proprio vissuto di giovanissimo aderente alla Repubblica Sociale Italiana: nato nel 1929, Vivarelli appartiene quindi all’ultimissima ondata di ragazzini che riuscì a combattere la Seconda Guerra Mondiale indossando una regolare uniforme (si pensi soltanto che che il padre di chi scrive, essendo nato nel 1930, fu scartato dall’arruolamento nella Decima Mas e confluì poi nella Resistenza).
Figlio di un avvocato monarchico nazionalista e profondamente fascista, il giovanissimo Vivarelli riuscì ad accedere all’ambito Collegio Navale di Venezia, appena lasciato il quale, il 26 luglio 1943, apprende della caduta di Mussolini.
I sentimenti provati inizialmente sono quelli facilmente immaginabili in un ragazzo cresciuto in un ambiente profondamente intriso di militarismo, di fedeltà incondizionata al regime e di disponibilità al sacrificio: un profondo desiderio di rivalsa su quella che appariva come una manovra di palazzo per mettere fuori gioco Mussolini. Un semplice tradimento.
L’impatto con la caotica situazione militare italiana della fine del 1943 renderà ovviamente impossibile assolvere a quella missione auto imposta di riscatto nazionale che un’intera generazione di giovanissimi combattenti si addossarono.
Continui spostamenti tra Roma, Firenze, Bologna, Milano e parte delle campagne dell’Emilia Romagna portarono Vivarelli a contatto con la realtà della guerra nelle condizioni di lotta più disperate, ma con pochi episodi realmente cruenti.
Il libro è interessante sopratutto come testimonianza in prima persona della fine della guerra vista con gli occhi di un quattordicenne pienamente devoto alla causa fascista e completamente convinto della giustezza delle proprie azioni: il tutto è reso attraverso un dettagliato diario degli avvenimenti che l’autore scrisse durante la guerra.
Dopo la guerra Vivarelli andrà incontro ad una serie di significative esperienze: la visione dei filmati americani sulla liberazione degli internati dai campi di concentramento, il diretto contatto con un centro di accoglienza per profughi ebrei e, sopratutto, la lunga permanenza all’interno di un ospedale militare a Calambrone.
Fu questa occasione, raccontata alla fine del volume, a far maturare definitivamente il ripensamento complessivo che portò poi Vivarelli a dedicare tutta la propria vita alla storia, ed in particolare alla ricostruzione della genesi del fascismo: fu infatti all’interno dell’opedale militare che Vivarelli entrò in contatto con un gruppo di ex-combattenti comunisti, assai provati dalla guerra.
Questa inaspettata conoscenza ebbe un peso decisivo nella formazione umana del giovane ex repubblichino: “ […] la conoscenza che acquisivo della loro vita e del loro modo di pensare, quel microcosmo di un’Italia popolare, un’Italia ancora immune dalla lebbra di vizi più recente, tutto ciò costituì un ambiente dove io ebbi modo di maturare utili riflessioni sul mio paese, sulla mia storia, sul recente passato”.
Queste riflessioni dureranno poi per moltissimi anni e sfoceranno nella riconsiderazione di due figure che erano state fondamentali per la formazione di Vivarelli: il padre, ovviamente, e quello che fu il maestro di fede politica del giovanissimo combattente, il professor Leo Rossi.
Ma oltre a queste importanti figure, altre andranno inevitabilmente incontro a ripensamenti, come nel caso di Alessandro Pavolini, creatore delle Brigate Nere della RSI, con cui Vivarelli sarà in contatto negli ultimi giorni di Salò.
In appendice al volume vi sono poi una quindicina di pagine con una interessante recensione del famosissimo libro di Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella resistenza, la cui pubblicazione nel 1991 fu la prima occasione per Vivarelli di mettere a frutto le sue esperienze personali per una valutazione critica del periodo 1943-1945.
Essendo il libro di Pavone “una vasta ed approfondita analisi dell’animo con cui tali vicende furono vissute dai protagonisti” (pg 113), la recensione di Vivarelli analizza più da vicino i problemi relativi alla legittimità morale nell’uso della violenza traendone conseguenze che sono in parte condivisibili, in parte apparentemente contradditorie, ed in parte francamente non accettabili.
Il punto più critico nell’analisi di Vivarelli della legittimità della violenza si concentra sopratutto nel capitolo 7 del volume di Pavone; Vivarelli contesta alcune conclusioni di Pavone in base all’idea secondo la quale se si eccettuano i manipoli di torturatori, la massa dei soldati repubblichini non esercitò una violenza qualitativamente distinguibile da quella partigiana (pg. 120-121)
A me sembra invece che sia storicamente sostenibile e sopratutto moralmente necessario uno sforzo per distinguere tra tipi diversi di violenza: da una parte la violenza di chi la guerra l’ha voluta, imposta e condotta fino a perderne il controllo e, dall’altra la violenza di coloro che trovatisi in condizioni disperate capirono, specialmente dopo l’8 settembre, che continuare la guerra in quelle condizioni era una pura e semplice follia.
In quella scelta c’è quantomeno il seme di una diversità di ordine morale non rinunciabile né ignorabile; naturalmente che questa differenza non fosse allora percepibile alle stesse persone concretamente coinvolte è ben possibile, come è anche del resto certo che sia assai difficoltoso discernere il valore relativo delle diverse posizioni.
Tutto questo però non toglie che l’esito di quella scelta sia stato in tutto e per tutto moralmente vincolante. Ed è esattamente qui che si apre un divario incolmabile, e questo divario è di ordine morale, se non altro perchè non mi sembra che esistano altre parole per connotarlo.
Naturalmente tutto questo senza neanche considerare quella sparuta minoranza di persone che erano antifasciste da sempre e che avevano quindi tutto il diritto morale di opporsi con la violenza all’altrui violenza.
Estremizzando si potrebbe dire che le opposte polarità nella legittimità dell’uso della violenza vedono da una parte Mussolini e gli alti comandi dell’esercito, dall’altra chi si è sempre battuto contro il fascismo pagando a volte prezzi pesantissimi, e questo sia nel caso di singoli cittadini che nel caso di uomini politici come, ad esempio per tutti, Sandro Pertini: se neanche in questo caso si riesce a vedere una differenza di ordine morale nell’uso della violenza, allora non mi è proprio possibile concordare con le tesi di Vivarelli che, sia detto per inciso ed una volta per tutte, è assieme a tutti i suoi camerati coetanei completamente innocente della follia in cui uomini come Pavolini lo costrinsero a vivere l’adolescenza.
Vivarelli Roberto
La fine di una stagione. Memorie 1943-1945
Il Mulino