Passato ormai qualche giorno dal voto del 17 aprile si possono cominciare a tirare le somme: il referendum, come tutti sanno, purtroppo non ha raggiunto il quorum e questo fatto, aldilà delle appartenenze politiche e delle scelte di voto, è complessivamente una sconfitta.
Questo punto però non ha trovato tutti d’accordo: il Presidente del Consiglio Matteo Renzi e l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si sono spesi per il fronte dell’astensione, mentre il Partito Democratico si è come al solito frantumato nei consueti mille rivoli, che qualche anima bella si ostina a chiamare “normale dialettica democratica interna”. E questo per non dire che il referendum stesso è stato promosso e sostenuto da autorevoli membri dello stesso Partito Democratico: addirittura per la prima volta da quanto esistono i referendum ben nove regioni, contro una soglia minima di cinque, avevano chiesto il voto diretto dei cittadini su questa questione. E di queste nove regioni la maggior parte erano governate dal Partito Democratico. L’impressione ovviamente è quella di un partito che avanza in ordine sparso su ogni questione che abbia un minimo di spessore e che contribuisca volontariamente a rendere il Parlamento una camera di compensazione di interessi esterni e talvolta contrari alla democrazia.
Questo in sintesi il quadro di quella che è stata la principale voce istituzionale che è giunta alla pubblica opinione, coadiuvata da una brillante informazione pubblica che come al solito ha quasi ignorato (è il caso del Tg1) l’esistenza stessa di ciò che non piace o non interessa al potere che si trova in sella in un determinato momento. E questo a prescindere da quel che accade nel paese (vedi il caso della Iplom e del torrente Polcevera) e anche dagli accordi sovranazionali firmati recentemente a Parigi dal nostro paese.
Matteo Renzi ha un bel vantarsi che l’Italia già rispetta e addirittura supera i limiti alle emissioni di CO2 previste dai trattati: questo fatto è dovuto principalmente alla crisi che ha costretto in un angolo settori tradizionalmente inquinanti come la produzione di cemento, energia elettrica e siderurgia, mentre chi veramente ha cercato in questi anni di cambiare modello produttivo lavorando nelle energie rinnovabili si trova alle prese con un sistema di regole che dopo un iniziale periodo di euforia (ma erano altri i governi!) ha lasciato posto alla disoccupazione e all’incertezza.
E’ vero: chi ha sostenuto il fronte del no alle trivelle ha perso (anche se le percentuali dei votanti parlano chiaro!). Probabilmente la sconfitta non cambierà in modo drastico né la situazione dell’industria petrolifera italiana né la situazione di compagnie come la Total (processi a parte). Rimarrà uguale anche l’ignavia di larga parte dell’elettorato italiano, complice la discutibile scelta di non accorpare il referendum alle elezioni.
Bisogna però ricordare che un punto di vista assai diverso dall’ignavia e dal boicottaggio del voto è sostenuto dalla Costituzione: all’art. 48, terzo comma, la Costituzione afferma infatti che l’esercizio del voto è un dovere civico. E che il voto non può essere limitato se non per incapacità civile o nei casi di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale previsti dalla legge (sesto comma).
Chi ha votato, comunque lo abbia fatto, ha onorato il dovere civico previsto dalla Costituzione. Chi invece il 17 aprile ha preferito fare altro ha scelto più probabilmente una poco raffinata forma di indegnità civile.