LA LEGGENDA DEL MAHVAH E DEL MAHNTSOMMHA

come-fare-bene-spesa-supermercato-errori-da-evitare-1Monologo teatrale.

Entra un monaco anziano.

– Buon risveglio miei cari iniziati, spero che la vostra parca colazione di riso e thé verde abbia ben disposto i vostri stomaci acciocché le vostre orecchie meglio possano prestare ascolto alla leggenda che oggi voglio narrarvi. Certo, non è come il buon pasticcio di uova di grifone e erba lupina che faceva mia nonna Pehtronyllah…ah… che buon pasticcio di uova di grifone e erba lupina che faceva mia nonna Pehtronyllah… se solo mi ricordassi la ricetta… ma nei monasteri, si sa, non è per il vitto che si sceglie di entarci.

Dovete sapere che, benché coltiviamo la non-violenza fin dal più antico dei tempi (di fatti ormai ne abbiamo cespugli ovunque), noi yoji abbiamo anche inventato le arti marziali assieme ai cinesi del tempio di Shaolin, su al nord. – si gira verso un ritardatario e rimbrotta bonariamente – Eh… ecco che arriva anche il nostro buon Vadhoaletton’sakkotardyehmaltsosbadhigliandocomen’pandha. Siediti anche tu fra i tuoi compagni. Aaaah… stavo dicendo… questa è la storia dei due yoji che fondarono le arti marziali. Un bel giorno lo yoji anziano che reggeva il nostro tempio a quell’epoca (il venerabile Fhumobevokhaloevvimandhon’giropelmondhoan’zeguhillerhobestranekevvossognandho) ebbe una grande visione durante il riposino pomeridiano a cui di solito si abbandonava dopo i soli tre litri di vodka bianca d’importazione che si concedeva da quando aveva fatto voto di morigeratezza. Nella visione il monaco anziano del tempio di Shaolin (un cinese allampanato e strabico di nome Ntso Ikkediho) gli diceva:
“Maestlo Fhumobevokhaloevvimandhon’giropelmondhoan’zeguhillerhobestranekevvossognandho, siamo da tempo sotto attacco dei pledoni del malvagio consigliele impeliale Pijo Thutt, che geloso delle nostle glandi liserve spilituali e del nostlo ascendente e influenza sul popolo vuole logolale i nostli pacifici monaci con lubelie e plovocazioni. Lo spilito guida Chi Plovhyamo, plotettole di saggezza e accoltezza, mi ha confidato che solo un aiuto dal vostro monastero potrà salvare i nostri laccolti pel l’invelno. Ti plego, manda i tuoi yoji miglioli affinché le ingiustizie abbiano telmine.”
Dette queste fatidiche parole il saggio Ntso Ikkediho svanì gridando le sibilline parole “Mi è finito il cleditooooooooooooooo…..”. Allora il vecchio maestro Fhumobevokhaloevvimandhon’giropelmondhoan’zeguhillerhobestranekevvossognandho si destò d’un colpo e – vomitato un mezzo litro di vodka maledicendo le produzioni industriali che non facevano più la buona vecchia vodka casalinga del duemilacentosei avanti Cristo – mandò a chiamare i due suoi più grandi allievi: il Maestro dei Venti e del Volo yoji Vadhonpahndhattuttarandha (detto anche “il Mahvah”, che in indiano antico significa “Va alla grande”) e il Maestro della Pioggia e dei Mari yoji Vardha’amandapoivekhmediolamandha (detto anche “il Mahntsommha”, che in indiano antico significa “Grande sommozzatore”).
Il vecchio custode e cuoco del tempio, lo zoppicante Vadhopyanopokosanoehpokolonthano Shon Tuttunabendha fu inviato a cercare i due abili yoji che si allenavano alle loro misteriose pratiche nei boschi circostanti. Intento com’era a svolazzare dietro alle canarine più gialle in forma di folata di vento il Mahvah non si accorse del retino per farfalle che lo acchiappò, né – intento com’era a lottare con i lucci in forma di corrente marina – si poté accorgere il Mahnsommha della botte in cui veniva abilmente condotto e rinchiuso dal vecchio custode. Così i due grandi yoji si presentarono al loro maestro: il Mahnsomma con un pesce ancora in bocca e gli occhi pallati, il Mahvah con aria trasognata e piume di canarino ovunque.

Il maestro spiegò loro il sogno e il viaggio che dovevano intraprendere e i due, ascoltatolo con l’aria grave delle grandi occasioni annuirono al temine del racconto con la tradizionale espressione di assenso e devozione dei discepoli del nostro tempio: “Bhevydimenho” dissero in coro defenti. All’alba, svegliatisi di buon ora, compirono il rituale antico di preparazione ai viaggi lunghi e pericolosi: recatisi alle botti di vodka del maestro il Mahvah recitò la formula arcaica: “Thubbevessimpomenho! Vekioporkombriaho!” ed estratto il coltello rituale il Mahnsomma sventrò tutte le botti lasciando che il prezioso liquore irrorasse la terra in segno benaugurale. Salirono sui loro cavalli (Ventonpoppha e Milaholemany) e partirono al galoppo facendo svolazzare le loro tuniche arancioni. Svegliatosi due ore dopo, il saggio maestro Fhumobevokhaloevvimandhon’giropelmondhoan’zeguhillerhobestranekevvossognandho completò il rito propiziatorio: guarando il prezioso liquore che irrorava la terra in segno benaugurale recitò la formula d’immemore vecchiezza ed inusitato potere “Lhevostrehornaccianfamy! Stharobakostapiudellatutestha!” e piantato in terra il bastone in terra disse al vecchio Vadhopyanopokosanoehpokolonthano Shon Tuttunabendha, usando il sanscrito dialettale e arcaico: “Senaddha komprhaddellartreh” e il vecchio Vadhopyanopokosanoehpokolonthano Shon Tuttunabendha  rispose nello stesso idioma: “Thanto semosemprehnoi appagha, anvhedystombriaho”. Il maestro tacque e si ritirò nelle sue stanze compostamente ruttando.
Per mari e per monti galopparono il Mahvah e il Mahntsomma, ma soprattutto per levarsi di tre passi dal vecchio Maestro Fhumobevokhaloevvimandhon’giropelmondhoan’zeguhillerhobestranekevvossognandho, le cui stranezze avevano cominciato da tempo a infastidire gli addestramenti degli allievi. Molti dicevano che senza di lui si sarebbe studiato meglio, altri che si sarebbe studiato molto meglio, altri ancora che senza di lui si sarebbe studiato davvero molto meglio. Ma non mancavano i suoi sostenitori: “Se lo vedi quando entra in palestra e vomita i postumi di un rave raccontando che si tratta di un esercizio tantrico e riesci a non spaccargi la faccia, se lo trovi che sta spengendo il suo sigaro nel tuo the verde e riesci a non annodargli il collo, se lo vedi che piscia nel Ruscello Sacro e riesci a non strappargli gli occhi e giocarci a biglie, se riesci serafico a lasciare che ti svegli la notte durante le tue uniche tre ore di sonno per raccontarti le sue bravate al bordello del vicino villaggio, se – dicevano costoro – riesci a restare fermo mentre sei in meditazione tantrica sul Prato dei Sospiri e lui dal Ponte dei Mormorii ti sputa ripetutamente negli occhi gridandoti parole di cui anche il più feroce bestemmiatore avrebbe pudica vergogna… allora e solo allora puoi senza dubbio affermare di essere un Vero Yoji”.

 Il viaggio procedette per lungo tempo senza intoppi, perché il Mahvah e il Mahntsomma erano yoji d’inenarrabile destreza: nonostante che la regione fosse cosparsa di fiumi fiumeggianti e monti montanti quando trovavano un fiume il Mahntsomma si faceva acqua e trasportava il Mavah, quando trovavano un monte era il Mahvah a trasformarsi in vento e trasportare il compagno. Certo, dopo ogni trasformazione c’era sempre qualche pesce in meno nei fiumi e qualche canarina in cinta sui monti, ma non si può fare una frittata senza rompere le uova, come diceva sempre mia nonna Pehtronyllah. Ah… che buon pasticcio di uova di grifone e erba lupina che faceva mia nonna Pehtronyllah… se solo mi ricordassi la ricetta…

Dopo sei giorni e sei notti di viaggio senza sonno, senza cibo e senza aree di servizio per andare alla toilette, i due yoji dovettero fermarsi e scelsero la ridente cittadina di Boh per consumare una tazza di riso bianco e una breve notte di sonno (e magari trovare anche un alberello al riparo da sguardi indiscreti per i bisogni impellenti). ma alla locanda del Rospo Imbarazzato trovarono ad attenderli una trappola del malfido Pijo Thutt: egli aveva infatti liberato il primo dei suoi tre terribili demoni cinesi. Il suo nome era Deh Li Shyon ed era un serpente viola con ali di pipistrello e coda di maiale estremamente brufoloso che istigava le brave genti a deridere i grandi eroi e stimare i vigliacchi profittatori anche se brutti puzzolenti ed antipatici a pelle. Il demone si era impadronito dell’oste e questi così apostrofò i nostri eroi: “Brutti che siete! Quant’è che non cambiate quelle tuniche lise? Non avete visto la moda di Nuova Dehli?” Tutti nel locale cominciarono a guardare i due saggi yoji e a ridere come forsennati. Sulle prime il Mahvah, che era un grande yoji ma amava di tanto in tanto rimirarsi nel laghetto del nostro monastero, reagì dicendo: “Dite signore? Ne devo acquistare una nuova?”. Ma pronto il Mahntsomma reagì: “Questo ci distoglierebbe dal nostro viaggio, o nobile compagno, dobbiamo perseverare nell’impresa. Non ricordi l’ultima volta che fallimmo? A mesi e mesi di meditazione dovemmo rinunciare per spalare tutte quelle montagne di sacri escrementi di elefanti sacri! Questo è certamente un inganno del demone Deh Li Shyon, o mio ventilato compagno!”. Ciò detto si trasformò in acqua e s’infilò nel bicchiere che il locandiere stava trangugiando. Così facendo si ritrovò dentro il povero locandiere faccia a faccia con il terribile demone e – avendolo riconosciuto – dopo una breve colluttazione ebbe la meglio su di lui e, una volta ripisciato dal suo malcapitato ospite, uscì tra le grida trionfanti degli avventori che si sentivano liberati dal demone che li rodeva. Tra queste grida trionfanti i due yogi ripresero il loro viaggio per mari, monti, paludi e futuri parcheggi di fast food.

Dopo altri sei giorni e sei notti d’ininterrotto girovagare senza sonno, senza cibo e senza TV neanche per le finali di coppa, i due yoji si fermarono di nuovo per una breve pausa, scegliendo stavolta la ridente cittadina di Beh per consumare una tazza di riso bianco e una breve notte di sonno (e magari trovare anche una gazzetta coi risultati di India-Nepal in Coppa Asia). Ma alla locanda del Dugongo Strabico trovarono ad attenderli una nuova trappola del malfido Pijo Thutt: egli aveva infatti liberato il secondo dei suoi tre terribili demoni cinesi. Il suo nome era Teh Leh Doh ed era un grosso orso nero con la testa di lupo, gli occhi di fuoco, due enormi ali da drago e un lampeggiante da carroattrezzi in cima alla testa. Era il demone dell’aggressione ed istigava le brave genti ad odiarsi fino al punto da ricorrere alla violenza le une contro le altre. Il demone si era impadronito dell’oste e questi così apostrofò i nostri eroi: “Cattivi che siete! Sempre stranieri che rubano, stranieri che stuprano, che ci rubano il lavoro e le donne… riempiamoli di ceffoni e botte sul capino!” Tutti nel locale cominciarono a guardare i due saggi yoji e ad avvicinarsi minacciosamente. Sulle prime il Mahntsomma, che era un grande yoji ma ogni tanto scuoteva per il colletto il cuoco del tempio quando il riso bianco era scotto, reagì dicendo: “Noi siamo maestri yoji e vi possiamo fare a pezzettini e darvi in pasto ai canarini nati dalle relazioni illecite del Mahvah!”. Ma pronto il Mahvah reagì: “Questo ci distoglierebbe dalla Via che abbiamo scelto, o nobile compagno, la violenza non porta che male. Non ricordi l’ultima volta che picchiasti il cuoco? A mesi e mesi di meditazione dovemmo rinunciare per colpa di quei sassolini che ci metteva nel riso per vendicarsi e che ci spaccavano i denti facendoci passare notti insonni! Questo è certamente un inganno del demone Teh Leh Doh, o mio umidoso confratello! E comunque le mie relazioni non sono illecite, nonsono mica sposato”. Ciò detto si trasformò in vento e intrufolatosi in uno sbadiglio del locandiere si trovò faccia a faccia con il magligno demonaccio. Ma ormai era finita: avendolo riconosciuto, dopo una breve colluttazione lo yoji ebbe la meglio e, una volta scorreggiato dal suo malcapitato ospite, uscì tra le grida trionfanti degli avventori che si sentivano liberati dal demone che li rodeva. Tra queste grida trionfanti i due yogi ripresero il loro viaggio per mari, monti, paludi e future piste di atterraggio per voli charter a basso costo.

Dopo altri sei giorni e sei notti d’ininterrotto girovagare senza sonno, senza cibo e senza un attimo per chiamare a casa la nonna in pensiero, i due yoji si fermarono di nuovo per una breve pausa, scegliendo stavolta la ridente cittadina di Bah per consumare una tazza di riso bianco e una breve notte di sonno (e magari trovare almeno una cartolina con un paio di liocorni simpatici da mandare alla nonna). Ma alla locanda del Cetaceo Insonne trovarono ad attenderli ancora una trappola del malfido Pijo Thutt: egli aveva infatti liberato il terzo dei suoi tre terribili demoni cinesi. Il suo nome era Huan Toh Voy ed era uno strisciante ragno verde con la coda di lombico, le ali di mosca, la testa di colomba e andava sempre in giro con un suv leopardato e gli occhiali specchiati. Era il demone dell’inganno ed istigava le brave genti a vendere anima, babbo, mamma e parenti fino alla trentaquattresima generazione di discendenza ascendenza e affliazione. Il demone si era impadronito dell’oste e questi così apostrofò i nostri eroi: “Simpatici che siete! Lo sapete che con un bel faccino così  ho un amico a Hong Kong che vi potrebbe fare entrare nel giro dello spettacolo: modelle, subrette e conigliette ai vostri piedi, soldoni a palate, macchinoni che non se ne vede la fine se non con lo speciale binocolo fornito in dotazione, villoni con piscine così grandi che potete tenere un branco di balene e un ippopotamo nano per vostro figlio! Faccio una telefonata e vi prendo subito un appuntamento! Altro che giorni senza mangiare e notti senza dormire! O quanto meno… mai più senza prima una bella tirata di coca.” Tutti nel locale cominciarono a guardare i due saggi yoji e a dargli gran pacche sulle spalle fingendosi amici nella speranza di entrare anche loro nel mondo dello spettacolo. I due yoji si guardarono con intesa, questa volta era stato facile capire che si trattava del terribile demone Huan Toh Voy. Niente di quello che il demone aveva da offrire rappresentava il più pallido interesse per dei Veri Yoji abituati alla vera felicità dei folti boschi, dei fruscianti ruscelli e del festoso picchiettare della pioggia in primavera. Unirono le mani e pronunciarono insieme l’antico esorcismo degli yoji monopolisti del Viale dei Giardini sul Monte Rosa: “Mavvattelhappijjarnerbusodelculokettesehbebevuol’cervellosedutogiunverndavesieterincretinititettuttalatubandha!?!?”. Il maligno, sconfitto, dovette volarsene via tra le grida trionfanti degli avventori che si sentivano liberati dal demone che li rodeva. Tra queste grida trionfanti i due yogi ripresero il loro viaggio per mari, monti, paludi e future lottizzazioni cresciute come funghi da abili speculazioni.

Dopo altri sei giorni e sei notti d’ininterrotto girovagare senza sonno, senza cibo e nemmeno un solo maledetto internet point per guardare almeno la posta e un paio di messaggi su FaceBook, i due yoji giunsero finalmente all’antico monastero di Shaolin, che già allora era antico, sebbene un po’ meno antico di oggi. Il vecchio maestro Ntso Ikkediho li accolse a braccia aperte: “Cali! Cali! Calissimi yoji Mahvah e Mahntsommha! Qual buon vento?” “O venerabile, rispose il Mahvah, ci avete chiamato voi apparendo in sogno al nostro saggio maestro Fhumobevokhaloevvimandhon’giropelmondhoan’zeguhillerhobestranekevvossognandho” “Pel niente, favellò desolato il vecchio monaco, sono un due-tlecento anni che non lo sento, anzi… come sta?” “Male: appena troniamo gli rompiamo i garretti”, rispose rispettoso il Mahntsommha. “Ma capitate a ploposito: siamo sotto l’assedio degli sghelli del malvagio consigliere imperiale Pijo Thutt, che geloso delle nostle glandi liserve spilituali e del nostlo ascendente e influenza sul popolo vuole logolale i nostli pacifici monaci con lubelie e plovocazioni.” “Vedi mai che il vecchio fattone stavolta ci ha azzeccato” disse ossequioso il Mahvah. “Sarà, ma io i garretti glieli rompo lo stesso” disse benevolo il Mahntsommha. “Vediamo i vostri monaci e organizziamoci sul da farsi” concluse pratico il Mahvah che aveva visto nei boschi circostanti un paio di canarine alle quali aveva fretta di presentarsi. “Prima mangiamo, che con tutta questa storia è quasi un mese che non si sgrana” disse rombando lo stomaco del Mahntsommha. E fu così che finalmente i due poterono rifocillarsi a dovere. Certo. Niente a che vedere con il pasticcio di uova di grifone e erba lupina che faceva mia nonna Pehtronyllah. Ah… che buon pasticcio di uova di Grifone e erba lupina che faceva mia nonna Pehtronyllah… un etto di farina di grano garrulo, due foglie secche di cespuglio intruglio… ah… è troppo lunga, ve la dico dopo…

L’enorme salone centrale del tempio di Shaolin raccoglieva un paio di centinaia di pacifici monaci con l’aria spaesata. “Che dovlemmo mai fale?” chiese uno dei monaci più giovani. “Siamo contadini e meditatoli da semple, non siamo abituati alla lotta e non la vogliamo. Se combattessimo avlemmo gettato via tutto quello per cui ci siamo addestlati pel anni” “Noi dal canto nostro, disse il Mahvah, conosciamo bene le arti della guerra ma le usiamo solo contro i demoni, mai contro gli umani, è un nostro sacro precetto”. “Allora volgiamo contro di loro i loro stessi attacchi” disse il Mahntsommha. “Io sono Maestro dell’Acqua e il mio confratello dell’Aria, se c’è una cosa che possiamo insegnarvi bene è… a scansarvi”. E così fecero. Per due, quattro, sei, dieci, dodici notti, per due, quattro, sei, dieci, dodici giorni i monaci di Shaolin impararono a fuggire gli attacchi dal Mahvah e dal Mahntsomma a frangere come scogli le onde della violenza rigettandole nel mare dell’umana natura.

Il dodicesimo giorno, quando quattrocento neri sgherri del malefico Pijo Tutt cavalcarono i loro cavalli bianchi contro Shaolin trovarono che ogni cosa era cambiata.
Furono scansati, disarcionati, accolti e converti. Allora Pijo Thutt inviò altri quattrocento sgherri, ma questa volta ad accoglierli trovano seicento monaci. Furono scansati, disarcionati, accolti e converti. Allora Pijo Thutt inviò altri quattrocento sgherri, ma questa volta ad accoglierli trovano mille monaci. Allora Pijo Thutt inviò la sua guardia scelta di seicento giganti delle montagne a cavalo di elefanti corazzati, ma questa volta ad accoglierli trovano mille e duecento monaci. Furono scansati, disarcionati, accolti e converti. Allora Pijo Thutt si gettò di persona all’assalto di Shaolin sul suo dragone viola dagli occhi di perla e l’alito al microonde ma trovò duemila monaci ad accoglierlo. Fu scansato, disarcionato, accolto e convertito. Il drago, liberato dal maleficio che lo rendeva malvagio, divenne simbolo e protettore del grande monastero, e dopo centoventi anni di addestramento e meditazione, compreso fino all’ultimo ogni suo errore, il malefico Pijo Tutt sedette tra i Maestri Anziani di Shaolin, col nome di Mhy Doh.

Ah! Il pasticcio di uova di grifone e erba lupina che faceva mia nonna Pehtronyllah! Oh… no… mi è di nuovo passata di mente la ricetta.

Guido G .Gattai

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