Pubblichiamo qui la scherzosa autobiografia di Roberto G. Salvadori, da lui mai pubblicata in vita ma realizzata solo per ridere tra amici 🙂
Si noti, preliminarmente, che per la stesura di una biografia ancorché incompleta di qualsiasi persona occorre un tempo superiore alla lunghezza della sua vita.
Se ne traggano le conseguenze per quel che riguarda un’autobiografia.
R. Salvadori è nato a Firenze, nel 1926 e si è laureato in filosofia (morale) con il prof. Eugenio Garin, nel 1950 (naturalmente con 110 e lode), con una tesi su Hume, il cui pensiero lo ha accompagnato tutta la vita.
Come addetto ai lavori filosofici ha scritto di tutto (è uno dei tanti “tuttologi”, quelli che sanno niente di tutto e tutto di niente) e si è occupato di tutto: ha giocato a scacchi rivelandosi un mediocre dilettante, cotto ceramiche che nessuno voleva comprare e ancora oggi – alla sua età! – gioca con l’inchiostro di china tracciando incomprensibili e inutili arabeschi geometrici, è stato impiegato di un’associazione assistenziale con regolari mezze maniche, ha scritto un fallimentare volume di narrativa… Per diversi anni della sua vita, prima nell’infanzia e poi nella maturità, ha fatto di professione il degente d’ospedale, donde, poi, la sua attenzione aggressiva per la medicina (e per i medici). Deve ammettere, tuttavia, che ne è uscito vivo.
È stato fortunato: ha svolto un lavoro che gli piaceva (molto), quello dell’insegnante. Dapprima – per una ventina d’anni – nelle scuole medie superiori, liceo scientifico, istituto magistrale, liceo classico, in seguito – per un’altra ventina d’anni – nell’università di Siena, dove si è occupato di storia moderna. Persevera ancora oggi: organizza corsi di insegnamento e insegna lui stesso, presso l’Università dell’Età libera di Arezzo.
Topo d’archivio e di biblioteca, affetto da graforrea, ha scritto molto, anzi troppo: una ventina di libri, senza contare gli articoli, i saggi, le miscellanee, ecc. A poco serve citarne qualcuno. Basta dire che la sua attenzione si è soffermata soprattutto sulla storia degli ebrei in Toscana e sopra momenti della storia aretina tra Settecento e Ottocento.
Il primo tema – lo confessa – è quello che gli premeva di più. Vedeva quegli eventi, fin da quando, in età giovanile, aveva saputo della shoah, come una delle specificazioni del male, una delle più gravi e drammatiche e desiderava – intensamente – capire come era stata possibile.
Motivi analoghi e al tempo stesso diversi lo hanno portato a interessarsi del problema del male fisico e quindi del dolore.
Strada facendo si è divertito a scrivere – che so io? – di psicologia degli scacchi, di farmaci in uso ad Arezzo alle soglie dell’Ottocento, di bioetica, di teoria della storiografia, di epistemologia (medica)… e ha messo su una sterminata e noiosissima “Bibliografia aretina”, raggiungibile da chi lo vuole sul sito Internet dell’Università di Siena, dispiegando così tutto il suo pervicace eclettismo.
Individuo asociale e tendenzialmente solitario ha finito, contraddittoriamente, con l’avere una sua famiglia e addirittura con il compiacersene.
Linea-guida costante: il socratico saper di non sapere e il moderate scepticism del “suo” Hume. Non per nulla è stato co-fondatore di una rivista sotterranea (molto sotterranea e molto transitoria) intitolata “Il dubbio”.