Nel gran problema del male (il problema dei problemi) si addensano tanti interrogativi, ognuno dei quali assai arduo.
Uno di questi è, senza dubbio, quello che riguarda il modo o i modi attraverso i quali un uomo, Tizio, diviene malvagio. Naturalmente per trattare una questione del genere occorre assumere che esistano dei malvagi e che della malvagità si abbia una nozione sufficientemente chiara. Per brevità, facciamo come se questi aspetti fossero accertati: ci sono stati e ci sono dei malvagi e sappiamo perché li qualifichiamo così (e cioè negativamente).
Diamo per scontata anche la validità della teoria delle gradazioni di responsabilità (e quindi di colpevolezza, di malvagità, ecc.). Non c’è uomo al quale non possa essere attribuito il “suo” grado responsabilità, “in situazione”. Ciò che vuol dire, da un lato, che c’è sempre una certa responsabilità individuale (con l’eccezione dei neonati, dei bambini molto piccoli, degli alienati mentali gravi e di coloro che sono in assoluto dominio di altri come i detenuti e i sequestrati, quando siano ridotti a oggetti) e, dall’altro, che questa responsabilità è, in parte almeno (e con variazioni non trascurabili) definita dal contesto in cui opera il soggetto agente.
Com’è noto questa impostazione è fatta propria dalla giurisprudenza attuale dei paesi più avanzati che respinge la responsabilità collettiva, ma prende in esame le circostanze esterne in cui la volontà soggettiva si esprime (di qui le attenuanti, le aggravanti, ecc.).
Introduco una prima distinzione, grossolana ma utile, fra coloro che nel fare del male, procurar male, far soffrire, ecc. hanno una funzione attiva (Hitler, ma anche uno stupratore, un torturatore che agiscano deliberatamente) e coloro che hanno una funzione passiva, di accettazione di adeguamento, nella zona grigia tra la consapevolezza e l’inconsapevolezza. [Sempre per brevità, lascio indefiniti l’avverbio deliberatamente e il sostantivo consapevolezza].
Una cosa è cercar di stabilire come Hitler (che sarà pure stato, a suo tempo, un bambino innocente) è divenuto cattivo fino al punto di essere assunto a simbolo di malvagità per quasi tutto il genere umano, all’infuori dei suoi seguaci e di coloro che ne ignorano l’esistenza e un’altra è cercar di capire come un mite e pacifico cittadino possa accettare Hitler, fermo restando che in questa accettazione si va dall’adesione senza riserve alla mancata opposizione. In quest’ultimo caso, accettare vuol dire, piuttosto, sopportare, subire.
Mi soffermo solo sul secondo caso che è quello, che in questo momento, mi interessa maggiormente, e lo faccio ricorrendo a un esempio concreto che mi riguarda personalmente, anche se con l’intento di assegnargli un significato emblematico.
Quando, nell’agosto del 1944, Firenze venne liberata erano stati già annunciati (o preannunciati: non ricordo bene) gli ordini di chiamata alle armi, da parte della RSI, dei giovani appartenenti all’ultimo scaglione, il mio (settembre-dicembre del 1926).
Ancora pochi giorni e avrei dovuto decidere se rispondere o non rispondere alla chiamata. Una decisione manifestamente importante sul piano individuale – e non solo su quello – a cui ero assolutamente impreparato.
Premetto a quel che segue che non ebbi patemi d’animo, se non del tutto irrilevanti: mi affidavo alla buona sorte che, nelle circostanze specifiche, era rappresentata dall’avanzata degli Alleati verso Firenze. Una speranza ben riposta. Un’ulteriore riserva: potevo attendermi di venir riformato, gracile come allora ero e con una gamba esile e malferma.
L’interrogativo, tuttavia, si poneva allora e continua a porsi oggi sotto la forma di una domanda che ancora mi inquieta: che cosa avrei fatto se fossi stato costretto dagli eventi (e dagli uomini) a decidere?
La scelta di campo non era in causa. Ma come realizzarla, visto che non avevo legame alcuno con gruppi antifascisti e con forze partigiane ed ero rimasto sempre uno schivo ragazzo che si guarda attorno stolidamente, a bocca aperta, senza capire granché di quello che avveniva? Non c’è dubbio che io avessi una personalità debole, molto debole (e, come me, certo, molti altri: ma questo non mi esonera dalla rivisitazione di questo episodio del passato, anzi, costituisce un incentivo ad andare oltre).
Ero, sì, avverso al fascismo, ma non si trattava di una presa di posizione radicata in qualcosa: un’analisi delle condizioni sociali, una riflessione, un’attrazione verso un’altra teoria politica, un’ideologia, un movimento… Basti dire che il 25 luglio 1943 ero rimasto stupito e incredulo nell’apprendere che esistevano, in Italia, partiti politici diversi da quello fascista, e quanto diversi! Non era nemmeno radicata in qualcuno: un’amicizia forte di chi ne sapeva e capiva più di me (cosa non difficile), un ambiente familiare dagli orientamenti ben definiti. I miei genitori erano genericamente anche se autenticamente antifascisti. E tuttavia lo erano con prudenza, anche e soprattutto a causa mia, per il mio bene (non ero forse destinato a vivere in una società che si presumeva sarebbe stata ancora, per decenni, fascista?). Sfuggiva loro, di tanto in tanto, un gesto, una parola che io coglievo, sì, e facevo miei senza nemmeno rendermene conto, ma non si trattava di convinzioni organiche ed esposte con chiarezza. Inoltre il loro effetto era, inevitabilmente contrastato dalle influenze ambientali, dalla scuola, dalla propaganda monocorde, ecc. e io rimanevo a mezza strada, né pesce né carne.
La mia avversione al fascismo si traduceva in un atteggiamento di insopportazione per il cerimoniale in cui il regime pretendeva di avvolgere me come tutta la “gioventù del Littorio” e che io trovavo, stupido, grottesco, irrazionale, vessatorio: la montura di avanguardista al sabato, le adunate, il saluto fascista, il piglio militaresco. Il fascismo che io conoscevo (e che era soprattutto quello di Santa Croce, uno dei più beceri) mi appariva volgare e, attraverso la volgarità, ne scorgevo la violenza, ma non andavo oltre. Rimanevo alla superficie. Non tiravo le conseguenze. Anche le leggi razziali mi avevano più sconcertato e rammaricato che indignato. Non mi ero reso conto della gravità del loro significato.
Per il resto ero un suddito qualsiasi (nessuno era allora un cittadino). Tranquillo, ubbidiente, legalitario e, ovviamente, del tutto insignificante. I nomi di Gramsci e di Kafka – per prendere due riferimenti assai lontani tra loro ma con un grande potenziale esemplificativo – mi erano del tutto ignoti. Sapevo che il fascismo aveva dei nemici (lo ripetevano ad ogni passo i fascisti stessi) ma per me essi non avevano un volto.
Naturalmente il mio tenero antifascismo si era andato accrescendo attraverso la guerra. Capitò a una parte sostanziosa e probabilmente maggioritaria degli italiani e capitò anche a me. Accrescendo, sì, ma non irrobustendo fino a divenire determinazione, a tradursi in volontà di lotta. Che io potessi contribuire, sia pur minimamente, a combattere il nazifascismo non rientrava nei miei pensieri. Fidavo negli eventi. Tutto quello che riuscii a fare è dare informazioni erronee sulle strade da percorrere a due o tre brigatisti neri o soldati tedeschi che me lo chiesero (non credo che abbiano perduto la guerra per questo). Ero un perfetto imbecille, anche e soprattutto nel senso etimologico del termine.
Ora, questo diciottenne sbiadito – vero e proprio pulcino implume – avrebbe dovuto decidere se vestire la aborrita divisa della “guardia nazionale repubblicana” o “darsi alla macchia”, come allora si diceva. La prima eventualità era inaccettabile e la seconda impraticabile. A ben vedere avrebbe deciso il caso, come in realtà fu.
Aggiungiamo che a complicar le cose c’era l’episodio recente della fucilazione, avvenuta al Campo di Marte, di quattro o cinque “renitenti alla leva”. Uno o due di costoro erano noti non a me, ma ai miei familiari e naturalmente se ne parlò più con senso di desolazione, non priva di timori, che di ira. E le famiglie di coloro che rifiutavano la coscrizione erano “sotto tiro”.
Il caso, dunque, avrebbe potuto portarmi da un versante o dall’altro. Ma non è casuale che fossi affidato al caso, se è lecito il gioco di parole. Vi concorrevano da un lato la mia impreparazione e la mia insipienza e, dall’altro, la forza cogente di circostanze estreme.
Resta il fatto che, con una probabilità che non so quantificare, avrei potuto trovarmi tra i malvagi, e sia pure malvagi incolpevoli o, proprio a causa della loro pochezza e della loro insignificanza, colpevoli a un grado molto basso. Indirettamente, e sia pure molto indirettamente, un volontario carnefice di Hitler. [Ovviamente si può discutere sia sulla volontarietà, sia sull’identificazione con gli aguzzini, ma la sostanza rimane]
In un certo senso fra i malvagi c’ero già, fin da quando non ho saputo chiarire a me stesso la natura del fascismo, deducendone la necessità di combatterlo. C’ero quando la situazione non era estrema, ciò che rende più difficile scorgere l’entità del pericolo, ma offre anche maggiori occasioni di informarsi e di comprendere.
In una situazione simile (non uguale) c’erano, con me, milioni di italiani. Anzi: milioni di uomini. Ero parte della massa.
Proprio questo mi preoccupa.
Nascono due quesiti.
Che cos’è che determina questa acquiescenza delle masse?
Sono certo che, oggi, non ci sia traccia di questa acquiescenza nei confronti di una qualche nuova patologia che percorre la società in cui vivo?
Risposte schematiche, provvisorie, ipotetiche e quasi senz’altro incomplete.
Al primo quesito.
Il potere si traduce in una coazione. L’ordine (gli ordini) viene imposto dall’esterno, con la forza (talvolta con la violenza) e interiorizzato attraverso gli impulsi gregari, il senso di colpa e il timore. Si aggiunge il desiderio-necessità di omologarsi agli altri per ottenerne l’approvazione (senso dell’appartenenza al gruppo, alla tribù). Concorrono le tradizioni culturali: dove il senso gerarchico e quello dell’appartenenza sono di più lunga data (e maggiormente radicati, come in Germania) il fenomeno dell’acquiescenza e dell’adeguamento allo standard comune, nel bene o nel male, è più accentuato.
Al secondo quesito.
Non solo non ne sono certo, ma ritengo molto probabile il contrario. Nella società umana nel suo insieme si avverte, oggi, qualcosa di patologico che è globale (aggettivo non scelto casualmente), anche se ha manifestazioni diverse e si presenta in forme più accentuate in un luogo e meno accentuate in un altro. Questa patologia è di difficile definizione, anche perché tende a mascherarsi e ad essere proteiforme. L’acquiescenza nei confronti di questo nuovo fenomeno appare molto diffusa (impossibile il confronto con quella che si ebbe nei riguardi del fascismo, del nazismo, del comunismo staliniano, dell’imperialismo giapponese, ecc.).
Conclusione (anch’essa provvisoria): capire Auschwitz ha senso solo se serve a combattere le malattie odierne.