Prendete il vostro computer o il vostro tablet, sedetevi su un prato e leggete questa intervista a Matteo Innocenti cogliendo e sperimentando ogni realtà da lui raccontata. Provate a captare ogni sfumatura ed iniziate a guardarvi intorno. La potenza della natura e la sua straordinaria bellezza vi cattureranno, lasciatevi prendere…
Iniziamo questa intervista col definire cosa è la spiritualità della natura, cosa significa?
Non è facilissimo rispondere a questa domanda in poche parole, però proviamo lo stesso: la spiritualità della natura possiamo intenderla in maniera semplice, nel senso che anche la natura ha uno spirito come ce l’abbiamo noi. Ma che cosa intendiamo per natura? Dal termine greco fusis, proveniente da fuo che vuol dire divenire, indica quindi la concezione della natura come un qualcosa che si trasforma e che si evolve. Fa riferimento non soltanto alla natura fisica come la chiameremmo noi oggi, cioè quella che accomuna le persone, gli animali, il sole e addirittura i sassi, ma allude in particolare al complesso ecosistema che permette la nostra vita, la vita di noi umani.
La natura che potere ha sull’uomo?
Per rispondere a questa domanda cerchiamo di capire il complesso dell’ecosistema che ci fa vivere, il quale ha un’anima come ce l’abbiamo noi. Siamo abituati a pensare il nostro spirito, la nostra mente come un qualcosa di puramente individuale e nostro, ma la nostra coscienza, che è quella parte di noi che ci da questa percezione, la percezione di noi stessi, si sa che si fonda su dinamiche più profonde e inconsce, che possiamo ipotizzare abbiano anche gli animali, le piante, con magari meno consapevolezza e coscienziosità, cioè la capacità centralizzata di gestire l’azione, che è quello che sappiamo fare noi uomini e che in una certa misura fanno anche altri animali, che hanno un sistema nervoso centrale. Le piante hanno un sistema organico senza né un centro né una periferia, però possiamo immaginare una loro anima concreta e reale. Addirittura possiamo ipotizzare lo spirito dei sassi con una sorta di sonno senza sogni, nel quale la coscienza si interrompe a volte durante il sonno, sebbene essa non sembri avere un inizio o una fine, ce l’ha in quel momento, nel momento del sonno senza sogni. In quell’istante la nostra coscienza è puramente potenziale e possiamo pensare che questa pura potenzialità sia ovunque e che si sviluppi in maniera differente a seconda della differente organizzazione della materia. Ciò significa che l’anima non è altro che l’altra faccia della materia e non sono due cose scollegate fra di loro.
Quanto è importante coltivarne la relazione e come si fa?
È importante perché un’eccessiva artificialità della vita umana porta ad un inaridimento delle sue fonti vitali, che sono radicate nel resto della natura, nell’ambiente che ci circonda e nella qualità dell’ambiente che ci circonda. Un mio caro amico, come me discepolo di Luigi Lombardi Vallauri, diceva che troppi tappeti impediscono di sentire il terreno sotto i piedi, metafora secondo me molto interessante per spiegare che questo eccesso ci impoverisce e ci rende aridi. Ciò sembra abbastanza evidente, notando come il mondo di oggi è impostato su schemi innaturali, facendo riferimento alla nostra vita che trascorriamo con dispositivi tecnologici che hanno una fonte di alimentazione propria. Tutto questo tempo passato con gli apparecchi ci allontana ed oltre ad una certa soglia inizia ad essere veramente dannoso. I segni sono evidenti, anche al livello della vita individuale delle persone, sia sul piano fisico che sul piano psicologico. Come si fa? Ci sono tante strade: una è quella di tornare ad una vita più immediatamente naturale, come tornando in campagna, facendo vita rurale, inserendosi di nuovo nel ciclo delle stagioni. Per esempio quando hai a che fare con l’agricoltura, impostata secondo i saperi contadini e non con l’agroindustria, che impone artificialità anche alla produzione alimentare, riesci ad inserirti di nuovo nel ciclo delle stagioni. Inoltre, per un contatto molto diretto, si possono fare avventure o situazioni di vita selvaggia, anche in tenda nei boschi, attività estemporanee. Il problema è che noi siamo anche incredibilmente legati a quella che è la dimensione cittadina, la dimensione storica che è quella che poi produce l’artificialità e fino ad un certo punto va bene, oltre ad una certa soglia NO. La metropoli è la dimensione in cui il livello umanistico inizia ad essere troppo ed è necessario iniziare a decentrare un minimo le città.
Cosa l’uomo può imparare da essa?
Si possono imparare tantissime cose: si può parlare per esempio di una capacità dell’uomo di inventività su basi teriomorfe, cioè la creazione di tantissime cose osservando gli altri animali, come il volo o il nuoto, e sebbene gli uomini abbiano fatto anche invenzioni originali come quella della ruota che non esiste in natura, si possono imparare tante cose; bisogna però stare attenti a non idealizzare questo mondo, non immaginando che sia qualcosa di fisso a cui bisogna tornare, perché non c’è nessuna natura a cui tornare, dal momento che l’uomo è intrinsecamente un animale culturale, in parte artificiale. Noi siamo questa artificialità, siamo ‘’l’incolturamento’’, il nostro rapporto con la natura non può essere un rapporto puro, non bisogna fare l’errore opposto a quello dei nostri giorni; bisogna trovare dei rapporti più civilizzati non solo con le altre culture, ma anche con gli altri esseri viventi e non viventi. Un filosofo lanciò la provocazione di creare un parlamento degli oggetti, cioè che dovevano essere rappresentati, tipo che i cellulari dovrebbero avere dei loro rappresentanti in parlamento: allo stesso modo dovrebbe esserci un parlamento per le piante, gli animali e il mondo della natura con diritti e rivendicazioni sul piano politico.
La nostra società e le persone di oggi in questo mondo così urbanizzato comunicano ancora con questa dimensione?
Come dicevo prima, vivendo in un ambiante altamente artificiale, è difficile, poiché le città e in particolare le metropoli, ovvero città che si sono allargate molto, anche se sono ben gestite e quindi mantengono aree verdi e parchi anche molto grandi, per esempio Roma o Milano, dove ci sono giardini molto estesi, mantengono una situazione di inesistenza per quanto riguarda la natura contadina o i boschi. Non è così facile e bisogna volerlo, non è impossibile, ci vuole sforzo. Noi in Italia siamo molto fortunati da questo punto di vista, i centri urbani sono picoi per la maggior parte, ma ammassando trenta milioni di persone in una metropoli come in Cina è ovvia la distanza con la natura, è inevitabile: troppe persone e troppi manufatti umani intorno a noi che fanno appunto uno strato di tappeti troppo alto.
La natura dovrebbe diventare protagonista della nostra interiorità e spiritualità? Se si come?
Anche qui è difficile rispondere alla domanda senza scadere nell’errore che dicevo prima, cioè nell’idealizzazione della natura e nel farne una sorta di divinità statica. Io credo che ci debba essere un rispetto per ciò che non è umano, cosa che noi non facciamo per niente; siamo abituati a pensare che l’umano è tutto e che il resto sia sempre materia plasmabile nelle nostre mani. Bisogna un po’ levarsi questa mitologia dell’uomo capace di modellare il mondo a suo piacimento come fece Dio prima di lui. Non è così. Noi dobbiamo riconoscere dei limiti inevitabili alla nostra azione, e questi sono il senso più profondo della natura che è ciò che ci trascende. Possiamo così parlare di una sacralità della natura senza idealizzazioni, con il riconoscimento del senso del limite, senza scadere nel peccato di urbis, tracotanza: spesso nell’antica Grecia succedeva agli eroi, i quali, certo erano potenti, capaci di fare imprese straordinarie proprio come la nostra civiltà, che con una tecnica è riuscita a raggiungere traguardi impensabili anche solo pochi anni prima, ma iniziando a pensare di poter superare ogni confine venivano regolarmente puniti dagli dei.
La natura un tempo faceva parte del sentire dell’uomo ed era evidente il legame incredibile che si creava, come possiamo oggi recuperare il rispetto per la terra?
Bisogna fare un’operazione in parte di recupero di cose antiche e in parte di prospettive verso il futuro, diverse da quelle che ci vengono proposte dalla situazione attuale, ovvero quella di ‘’artificializzare” sempre più tutto e levare ogni attrito con l’altro. Ecco la natura è proprio questo senso dell’altro profondo, del fatto che non puoi arrivare ovunque, il mondo non puoi plasmarlo come vorresti ed è una realtà evidente a chiunque, pensando che concretamente i nostri desideri non vengono sempre soddisfatti. Bisogna recuperare la saggezza degli antichi, nei quali è molto presente il senso del limite, anche nelle radici della nostra cultura, ad esempio l’antica Grecia. C’è stato un passaggio e c’è stata una grande scommessa con il cristianesimo prima e l’illuminismo dopo, dove appunto si è pensato di poter sconfiggere il male, di poter portare la ragione in ogni angolo buio, rivelandosi poi una pretesa eccessiva ed estrema ed è per questo che è bene tornare ad una mentalità diversa, dopo che comunque per 2000 anni ciò ha funzionato e ci ha portato dove siamo oggi, nel bene, ma anche nel male e tutte le avventure ad un certo punto hanno una fine o arrivano ad un punto dove si esauriscono, anche quelle culturali o di civiltà. Forse oggi bisogna recuperare qualcosa degli antichi e logicamente non penso che bisogna tornare all’età della pietra o anche solo ad una situazione di medioevo, buttando a mare lo sviluppo tecnologico, però dovremmo indirizzarlo diversamente e decentrarlo, basandosi meno per esempio sulla grande produzione industriale e di più su quello che si può fare in scala più ridotta; oggi ci sono tecnologie molto avanzate che permettono anche una deviazione di questo tipo, una tecnologia che può essere controllata e che non ha bisogno di grandi impianti industriali e di grande aziende piene di risorse. Il rispetto viene da questa saggezza del limite degli antichi. Si ritrova anche grazie a percorsi che prevedono esperienze non ordinarie, attingendo da fonti antiche o tradizionali, come ad esempio l’ayahuasca, che è una pianta amazzonica, la quale ha degli effetti che inducono stati non ordinari di coscienza, utilizzata in contesti sciamanici, e anche con ricerche moderne o neofondate portate avanti da psichiatri, artisti e filosofi. Bisogna stare fra questi due fuochi, quello dell’oblio della natura e dell’immersione integrale nel contesto civile che ci inaridisce e il ritorno mitologico ad una natura originaria che non c’è mai stata per noi umani, perché noi siamo esseri intrinsecamente culturali.
Consigli di percorsi da intraprendere per integrare compatibilmente il nostro essere con quello della natura, che appunto è un riassunto di tutto quello che abbiamo detto?
Ci possono essere percorsi personali e collettivi, io credo che le due cose stiano insieme, uno deve trovarsi dei momenti per se a seconda del proprio temperamento: individualmente può essere appunto avere un animale, coltivare le piante, anche in città, fare delle escursioni, uscire, tornare in campagna; collettivamente ci sono da fare percorsi sociali in cui ci si riappropria di un certo modo di stare nella città e nella campagna. Bisogna pensare diversamente lo stare insieme. La campagna oggi o è iperproduttiva o selvaggia e abbandonata a se stessa. Bisogna lasciare che la natura faccia il suo corso e noi tornare ad una situazione urbanistica più semplice. Tanti saperi contadini si sono persi ed essendo noi esseri intrinsecamente culturali il nostro rapporto con la natura non può essere che mediato da qualche forma di cultura, che o è l’agroindustria che sfrutta indefinitamente le risorse della terra, o la cultura contadina che ci permetteva un rapporto civilizzato e non di rapina con la natura, seguendone il ciclo senza l’imposizione dei ritmi folli dettati dalle logiche industriali.