Il senso della vita è: INSIEME. E non solo.

Si chiede da secoli quale sia il senso della vita. Lo si chiede per lo più a noi filosofi, che – diciamocelo – abbiamo sempre eluso la domanda e deluso le aspettative. In questo brevissimo articoletto mi propongo di dare una proposta non definitiva (di definitivo non esiste nulla in filosofia), ma almeno una risposta un po’ più netta e precisa del solito, seguendo un criterio che mi pare ragionevole.
Il criterio che utilizzerò sarà semplice: l’etica, a differenza dell’estetica, deve funzionare. Il criterio dell’estetica infatti è: se piace a me (oppure a “noi”, inteso come gruppo di riferimento), allora è positivo, altrimenti è negativo. Come scoperto da Socrate, sostenuto da molti e soprattutto ampiamente e magistralmente dimostrato da Baruch de Espinoza nella sua monumentale Etica more geometrico demonstrata, l’etica invece può avvalersi di strutture logiche più precise ed ha quindi il vantaggio di avere degli strumenti di analisi meccanicamente esatti. Non infallibili, ma esatti. Non infallibili perché tutto è passibile di errore, certo, però esatti ovvero ex-acti, tratti dagli atti, dalle fattualità (so che il dizionario etimologico preferisce la provenienza da ex-igere, ma io non son d’accordo e – comunque – la differenza è poca cosa).
Gli “atti” sono ciò che è stato già compiuto, agito in passato, ed è quindi analizzabile. Quindi fra poco ci avvarremo di alcuni insiemi di dati, di eventi ex-acti, per capire quale sia il senso della vita. Ma prima abbiamo bisogno di una breve premessa.
Cosa funziona e cosa non funziona? Difficile dirlo, direte voi. Sì e no. In realtà possiamo usare il vecchio giochetto delle precondizioni e tutto vien giù facile: è giusto ciò che rende possibile tutto. Due esempi che valgono più di mille parole. Nel calcio ogni regola si può mettere in discussione ma nessuno negherà il bisogno di un pallone, chi lo mettesse in discussione uscirebbe dal gioco del calcio perché distruggere il pallone renderebbe impossibile il gioco. Nella cucina ognuno avrà gusti diversi ma tutti converranno che non si debbano usare ingredienti mortali tra gli ingredienti. Chi la pensasse diversamente morirebbe e non potrebbe più gustare niente, qualunque gusto egli abbia. Quindi possiamo dire senza nessuna paura di essere smentiti che TUTTO CIÒ CHE SALVA LE PRECONDIZIONI È PER DEFINIZIONE FUNZIONANTE, BUONO, GIUSTO MENTRE TUTTO CIÒ CHE MINA LE PRECONDIZIONI È PER DEFINIZIONE MALFUNZIONANTE, CATTIVO, SBAGLIATO. Non ho timore di essere smentito perché chi mi volesse smentire morirebbe. E ora ve lo mostro.
In filosofia, sociologia, antropologia, psicologia, pedagogia e perfino in fisica, chimica, religione, filatelia, elettrotecnica, insomma in ogni forma di sapere umano la prima precondizione indiscutibile è l’esistenza del genere umano. Se contribuisci a far prosperare e perdurare il genere umano, quindi, hai ragione. Se contribuisci ad abbatterlo ed eliminarlo, hai torto. Se pensi che estinguere il genere umano sia una buon idea sei – eticamente parlando – senza ombra di dubbio in errore: sei il nemico, inteso come nemico di tutti. Te stesso per primo, perché un essere umano che estinguesse tutti gli altri e restasse solo al mondo si suiciderebbe in breve. E ora ve lo mostro.
Il primo lavoro di ricerca serio sull’argomento del suicidio è del grande sociologo francese (ebreo alsaziano per essere precisi) Emil Durkheim. Risparmiandovi la lettura del suo monumentale volume sull’argomento ne ne svelo subito il succo: tutti i suicidi avvengono in solitudine. Nessuno si uccide se ha una rete di rapporti sociali funzionanti e solidi. E se anche un piccolo gruppo di persone si uccide (come nel noto esempio di Jonestown) è perché si è staccato dal resto della società in modo così netto che non riesce più a produrre la funzione sociale interconnettiva base. Durkheim la mette giù ben più complessa in verità: parla di tipi di suicidio, di suicidio egoistico ed altruistico e da la colpa dell’isolamento suicidifero alla struttura industriale della società, ma per quel che riguarda questo articolo non abbiamo bisogno di ripercorrere tutto questo studio, chi ha desiderio di approfondire lo farà. A noi interessa il punto centrale: il più serio ed insuperato studio sul suicidio raccoglie dati che dimostrano che il suicidio è sempre e soltanto possibile da soli. In compagnia abbondante e sana non ci si suicida mai, all’aumentare del livello di solitudine ci si finisce sempre tutti per suicidare, chi prima chi dopo. Gli studi ulteriori, come accennavo, non hanno fatto che confermare tutti ed uniformemente i dati di Durkheim.
Quindi il senso della vita è: INSIEME. Insieme possiamo sopravvivere, separati no. E siccome la nostra sopravvivenza è la precondizione per ogni cosa, il senso della vita è quantomeno, almeno, se non altro, INSIEME. Non siamo “individui”, soggetti staccati ed individuabili nella massa, o almeno non solo, non soprattutto. Siamo soprattutto “ubuntu” come dicono gli africani ovvero indivisi, indivisibili. Il senso della vita è INSIEME.
Ma ancora: Charles Darwin pensava che il senso della vita fosse la sopravvivenza del più forte. Ma sbagliava. Alfred Russel Wallace, che aveva scoperto le stesse cose di Darwin un attimo prima ma era arrivato un attimo dopo a divulgarle, introdusse il concetto di fitness sociale ovvero la capacità di integrarsi nel gruppo sociale. Grazie la professor Giulio Barsanti, che ben lo descrive nel volume Una lunga pazienza cieca, anche un filosofo digiuno di biologia come me può infatti capire a sufficienza la differenza tra il cieco e maniacale attaccamento al concetto di selezione di Darwin (che sfocia nella più strutturata e complessa difesa della selezione razziale nazista) e la ben più ampia e ragionevole visione di Wallace. Wallace ci regala infatti l’idea che la selezione non avvenga tra forze muscolari ma tra intelligenze compatibili: i più compatibili con il maggior numero di altri individui tendono a sopravvivere. Anche qui: qualche esempio.
Non c’è bisogno di studiare le casistiche (fa sempre bene, ma qui forse non è indispensabile) per vedere come un ricco politico abbia più probabilità di trovare moglie rispetto ad un muscoloso panettiere, per quanto il panettiere – in teoria – stia più simpatico a tutti. Eppure in uno scontro corpo a corpo il panettiere abbatterebbe il politico in meno di un minuto. Questo accade perché il politico garantisce alla sua futura prole un morbido atterraggio in questo mondo su di un soffice letto di banconote mentre il panettiere – anche se giovane e muscoloso – ha però rate da pagare, mutui e magari talvolta qualche debito oppure, anche se è ricco, è sempre meno ricco del politico. Il denaro non è che un simbolo della fitness sociale: si da più denaro a chi sa conquistarsi più fiducia, a rendersi più indispensabile, più attraente, più appetibile e così via.
C’è però sia fitness positiva che negativa: un mafioso ha molta fitness sociale ma se non lo si ferma la società non farà che degradare, andare verso l’aumento del dolore collettivo, quindi la sua sarà fitness sociale negativa perché – vedi sopra – l’aumentare della media del dolore è precondizione per il godimento di ogni altra cosa: rapimenti, stupri, omicidi, torture ecc. ovviamente innalzano il dolore medio sociale percepito. La fitness sociale è invece positiva quando pensiamo ad un benefattore che tanto più viene accettato ed approvato tanto più la società ne gode e prospera. Per ragioni uguali e contrarie a quelle citate nel caso del mafioso chiaramente. Inoltre i neuroni specchio ci insegnano che solo vedendo gli altri stare bene possiamo stare davvero bene, quindi chi fa uso di una fitness sociale negativa soffre (più o meno consciamente ma inevitabilmente) mentre chi fa uso di fitness sociale positiva è più allegro, giocondo, “gode di più” insomma. Lo so. Spesso ai buoni sembra di perdere, di star peggio dei cattivi. Questo può essere dovuto a tre fattori nella mia esperienza: chi si sente buono e sconfitto o (1) non è in realtà così buono come crede, oppure (2) non ha provato ad essere nei panni del cattivo (che sono in realtà molto meno comodi di quanto lui creda) oppure – semplicemente – (3) la questione non è ancora conclusa.
Quindi il senso della vita è: INSIEME. E non solo. Possiamo aggiungere: insieme nel modo meno doloroso, più piacevole possibile. Insieme di modo da massimizzare il piacere medio sociale percepito.
Non confondiamo il piacere con la pigrizia. Aldous Leonard Huxley ne “L’isola” ci ammonisce: le due virtù filosofiche indispensabili sono attenzione e compassione. La compassione per capire i bisogni dell’universo, degli altri e di noi stessi. E l’attenzione in modo da diventare abili, veloci ed efficaci nel correre ai ripari o meglio ancora per prevenire i danni.
Quindi il senso della vita è: INSIEME. E non solo. Possiamo aggiungere: insieme nel modo meno doloroso, più durevolmente piacevole possibile. Insieme di modo da massimizzare il piacere medio sociale percepito. E ancora di più: insieme in modo da essere attenti, studiare, prepararsi e lavorare duro perché il lassismo e la pigrizia in etica sono come lasciare la porta aperta in quartiere malfamato. Finisce sicuramente male, o prima o dopo ma di sciuro. E non maluccio. Malissimo. Quindi se lo si fa si ottiene una piacevolezza poco durevole.
Quindi il senso della vita è: INSIEME. E non solo. Possiamo aggiungere: insieme nel modo meno doloroso, più piacevole possibile. Insieme di modo da massimizzare il piacere medio sociale percepito. E insieme nel modo più durevolmente piacevole possibile.
Mi auguro di aver finalmente dato una risposta esaustiva, il più possibile completa e soddisfacente alla domanda sul senso della vita. Sicuramente alla fine, nel 2018, quel che vi ho fornito è una risposta esatta e logicamente strutturata. Ma non ci sono arrivato da solo. Devo ringraziare tutti i maestri che ho citato e an he quelli che non ho citato ma che mi hanno reso possibile essere chi sono perché, come ricorda Marco Aurelio all’inizio dei Pensieri, ogni filosofo senza i suoi mestri è niente. Anzi: ogni essere umano, senza i suoi maestri è niente. Quesro ci porta ad un’altra osservazione insmdispenbile: i maestri non si superano. Quando diventiamo più alti di loro, arriviamo a vette che loro non avevano raggiunto, non siamo come automobili che ne hanno superata un’altra ma come uomini sui trampoli: se ci togliessero i trampoli non arriveremmo dove siamo arrivati. Ma non c’è solo il debito con i maestri. Anche ai nostri discepoli dobbiamo molto: infatti se nella scalata verso la saggezza gli insegnamenti dei maestri ci spingono dal basso, i bisogni dei nostri allievi ci trainano dall’alto. È per essere in grado di essere utili ai nostri discepoli che studiamo fiorno e notte anche dopo aver compreso i principi filosofici che bastano alla nostra singola vita. Quindi devo anche ringraziare Arianna, che con la discussione di questo pomeriggio mi ha spinto a metter per iscritto cose che dico spesso in conferenza ma che non avevo mai pensato a metter giù.

E sapete cosa dimostra il fatto che io debba ringraziare tutta questa gente?
Dimostra che il senso della vita è: INSIEME.

Guido G. Gattai

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