Tiziano Terzani ha detto che “l’unica rivoluzione possibile è quella dentro di noi“. L’ho preso in parola. Come dicono i classici “mi sono adoperato per migliorare la mia fede e i miei atti”. Ma da dove potevo cominciare? Innanzitutto, per cambiare in meglio dovevo capire dove stesse il meglio e come si facesse, quindi mi sono preso una laurea in filosofia, poi un master in filosofia orientale e comparativa, poi un altro in filosofia pratica. Nel frattempo, ovviamente, studiavo anche per conto mio, seguivo anche altri percorsi, altri maestri, e via e via…
Come è andata a finire? Bene ma non benissimo. Oppure non benissimo ma bene, dipende da come volete leggerla.
Qualche esempio. Sono diventato vegetariano e ho smesso di bere alcool (non che ne mangiasi o bevessi chissà quali quantità ma insomma…). Ho imparato a dire tutto quel che ho dentro. Ho imparato a dirlo nel modo più lieve possibile. Ho imparato prima a non provare rabbia e poi che non provare rabbia vuol dire reprimersi e quindi ho imparato a gestirla senza reprimerla. Ho imparato che lo ieri è un posto in cui non si torna col corpo ed è quindi inutile tornarci con la mente. Ho imparato ad amare, profondamente, non esteticamente. Ho imparato che il domani accadrà domani e quindi non è una cosa di cui mi devo occupare oggi. Poi ho imparato che, però, è bene che oggi non faccia cose che possono ripercuotersi in modo troppo pesante sul domani. E che, se pur non si deve vivere nello ieri, non si può neppure vivere come se lo ieri non fosse mai esistito, perché siamo fatti di tanti ieri e nessuna casa può esser fatta ignorando i mattoni. Potrei andare avanti a lungo ad annoiarvi.
Ma arriviamo alla parte che non ha funzionato.
I miei miglioramenti erano – e sono – del tutto instabili, ogni giorno rischio di perderli se non mi “alleno”, e poi ovviamente sono tutt’altro che “perfetto” o “arrivato”. Ma penso di poter dire che sono “un pochino meglio” e “un pochino più in là”. Ad ogni gradino che salivo, però, mi seguiva l’odio. Ovviamente è normale che se giochi a golf e improvvisamente smetti di giocare a golf perdi quegli amici che frequentavi solo perché giocavate insieme a golf. E così sono scomparsi i compagni di bevute, ad esempio. Perché andare al pub con uno che prende la spremuta di arancia dopo un po’ scoccia. Poi sono scomparse le mezze amicizie, quelle che reggi solo perché non gli hai mai detto quel che pensi su questo o quell’argomento. Certo, tu provi a dir loro quel che pensi nel modo migliore possibile, ma purtroppo ci sono persone che le opinioni diverse non le vogliono sentire in nessun modo. Neppure il più dolce del mondo.
Questo procedimento di selezione delle amicizie, lì per lì, è stato un grande salto di qualità: mano a mano non riscuotevo solo i benefici dell’essere un po’ meno peggio, ma anche i vantaggi di mettermi intorno persone, a loro volta, un po’ meno peggio di quelle che frequentavo prima. Oserei dire, poco a poco, di essermi addirittura circondato di persone buone. Non andiamo oltre. Non esageriamo. Ma, fin qui, tutto benissimo.
Però ho detto che è andata bene e non benissimo. Perché?
Il problema è che di persone di questo genere al mondo ce ne sono davvero poche. La maggioranza non fa ricerca spirituale di alcun tipo, tra i pochi che la fanno la maggioranza la fa male, per il puro gusto di sentirsi superiore alla massa, di guardare gli altri dall’alto in basso. Come se uno salisse sulla montagna per vedere quanto sembrano formichine le persone da lassù invece che per guardare il panorama. Anche se tu arrivassi alla cima non servirebbe a niente. Ammesso poi, che in cose come queste possa davvero esistere una “cima”.
Allora quando vai a confrontarti con altre persone succede poi che non ti capiscono. Anche le migliori. Perché se sei abituato a questi parametri, a questi atteggiamenti, uno che si comporta diversamente – o, peggio, molto diversamente – è quasi del tutto incomprensibile. E quel che è peggio, è che chi non fa ricerca spirituale e non ha nessuna intenzione di farne, ti traduce nel suo linguaggio. Ecco: il problema è questo: non tanto il non essere capito, ma l’essere tradotto male.
Sei vegetariano? Non sei compassionevole, ma un vizitello che fa i capricci. Sei astemio? Hai qualcosa da nascondere, non ci si può fidare di te. Dici le cose in faccia? Sei aggressivo. Aiuti le persone? Sei un borioso che si crede chissacchì. Eviti di nasconderti? Sei un vanitoso. Ti innamori? Sei pesante. Ami? Sei insostenibile. Dici le cose per come le vedi senza passarle al filtro della minimizzazione? Sei un esagerato. Dici una cosa a cui nessuno aveva pensato? Sei un estremista. Anche qui la lista potrebbe andare avanti molto a lungo.
Insomma, avevo studiato filosofia, ma avevo palesemente sottovalutato Platone. Pensavo che il saggio, rientrato nella grotta, venisse ammazzato di botte perché si poneva male. E invece no, il saggio viene fatto a pezzi per definizione. Oppure, come diceva Pasolini, viene reso famoso. “Che non è altro che un modo di farti a pezzi in pubblico, rendendoti estraneo alla realtà, sparpagliandoti in tanti pezzi di false notizie e notizie irrilevanti”.
A questo punto la soluzione sembrerebbe molto semplice: basta non diventare saggi. La ricerca spirituale è un vicolo cieco. Non porta altro che sofferenza e solitudine. Purtroppo neppure questa è una soluzione. Prima di tutto perché è quasi impossibile, e poi perché non è una soluzione. Non risolve il problema per niente.
Dico che è quasi impossibile perché noi esseri umani, come tutti gli animali, procediamo per prove ed errori. Non si comincia il percorso della ricerca spirituale ma perché si batte il naso contro ciò che non funziona e si ha il naturale impulso a migliorare, aggiustare il nostro comportamento in modo da evitare il più possibile di ripetere gli errori commessi in passato.
Dico che non risolve niente perché, appunto, se la ricerca spirituale, la trasformazione, nasce dal bisogno di farsi meno male nella vita, non trasformarsi, restare “bruchi” a vita, non può comportare in alcun modo alla felicità. La folla che ti fa a pezzi quando rientri nella grotta, insomma, è composta di persone estremamente meno felici e realizzate di te. Difficile invidiarle.
La soluzione, allora, è che il saggio, il santone, lo studioso, si gettino nel mondo e facciano capire a tutti come e quanto sia importante la ricerca spirituale, la trasformazione. Sì e no. Di certo il saggio DEVE gettarsi nel mondo e rendersi più utile che può, ma questo non può minimamente bastare. “Il maestro arriva quando il discepolo è pronto” diceva Ermete Trismegisto. Se i discepoli non sono pronti, il maestro fa solo la figura del rompiscatole.
Da piccolo credevo che i problemi del mondo si potessero risolvere con un re buono, come tutti quelli che hanno avuto una famiglia che gli voleva bene: vedevo che i miei problemi venivano risolti da persone a me superiori che pensavano al mio bene e pensavo di riprodurre questa soluzione sulla società. Purtroppo però, non si può restare bambini per sempre. Il modello familiare non può superare un villaggio di un migliaio o due di persone, poi il potere diventa troppo distante dal cittadino, scompare l’affetto e nascono le tirannie.
Dopo aver studiato Terzani mi ero convinto che allora non ci volesse un capo ma un maestro, che avesse studiato tutte le cose giuste e le sapesse dire nel modo giusto a tutti. Purtroppo, come il mito dell’uomo forte, anche il mito dell’uomo saggio è destinato a restare un mito. Non esiste un essere umano che possa saper dire tutto, ognuno sa solo qualcosa. E non esiste nemmeno un essere umano che sappia parlare a tutti. Gandhi stesso fu ucciso da un uomo che non era riuscito a convincere.
Allora troveremo la soluzione nella Fede, dirà qualcuno. Mah, sì e no. La fede imbecille di chi usa i dogmi per non riflettere non ci salverà di sicuro, anzi, è una pericolosissima scusa per non far nulla, restare nell’ignoranza e sentirsi pure nel giusto. Beh, di sicuro la soluzione non la troveremo senza fede. Ma la fede da sola può bastare soltanto se se ne applicano le conseguenze. Insomma, ci può salvare la Fede di Tolstoj, non quella del bottegaio che ruba sul prezzo delle mele e poi si confessa la domenica. Ci può salvare la Fede intesa come responsabilità individuale di ogni credente di intraprendere e proseguire per tutta la vita un cammino. Si possono accettare soste e deviazioni, ma non abbandoni. Ci può salvare la Fede se accettiamo la sfida che lancia Dio secondo l’opinione dei sufi, i saggi dell’Islam: “prima leggerai ogni mio libro, poi palerai con Me”. Il che vuol dire: Dio non ha scritto solo la Bibbia. Ha scritto tutta la realtà. Quindi prima di occuparti di teologia devi sapere tutto. Poi puoi iniziare a esprimerti sulla teologia. Non a caso un mio insegnante, Gavin Mandel, Kahn dei Sufi d’Italia, aveva tredici lauree. E non parlava mai di Dio. Se gli chiedevi di parlarne rispondeva sempre che non ne sapeva ancora abbastanza, lo sentiva col cuore, ma non sapeva descriverlo a parole. Insomma: ci salverà la Fede se la prenderemo come progetto di lavoro, non come scusa per adagiarci sulle nostre debolezze. Cioè ci salverà la Fede se sarà continua ricerca spirituale.
Quindi non ci salverà l’uomo forte, non ci salverà l’uomo saggio. Ci salverà il Messia? Mah. Non spetta certo a me parlare di cose così alte. Direi però che, se arriverà il Messia a salvarci, il nostro compito forse dovrebbe essere quello, nel frattempo, di farci trovare degni della Sua venuta.
L’unica via d’uscita è che tutti, contemporaneamente, o almeno la schiacciante maggioranza di noi, intraprenda con determinazione incrollabile, la strada della trasformazione, dell’evoluzione spirituale. E nessuno dica che è utopia, perché tutto quello che può fare una persona armata di buona volontà lo possono fare tutti. E anche perché l’altra via è continuare a vivere tutti nella sofferenza oppure in piccoli gruppi di affetti dai quali si ha paura di uscire perché fuori ci si sbrana come lui.
È possibile, è indispensabile.
Iniziamo.