Lorenzo Orsetti, lo sanno tutti, è morto con onore. Lorenzo Orsetti, è morto combattendo nello YPG, combattendo contro l’ISIS.
Io l’ho conosciuto quando aveva 14 anni. Con lui ho fatto le lotte politiche del liceo e, per quel che vale, abbiamo anche suonato insieme. Nel mio primo disco, lui è il bassista. Per quel che vale. Visto quanto hanno parlato quelli che lo hanno anche solo visto una volta in foto potrei occupare centinaia di pagine dicendo questo o quest’altro su di lui. Ma non ho detto molto finora, né dirò molto adesso. Il suo testamento parla da solo. Non c’è molto altro da dire. Il suo è il testamento di un eroe a tutti gli effetti. Di un grande pensatore e di un grande essere umano, impressionante. Quindi, di lui non dirò niente, perché quello che ha detto lui è già il meglio e anche la totalità di quello che se ne può e se ne deve dire.
Chi ha detto e continua a sire altro, avrà le sue buone ragioni. Io non ne ho e quindi taccio.
E non ho intenzione nemmeno di parlare del Kurdistan: ho letto Kobane Calling come tutti, leggevo i report di Lorenzo e contribuivo a diffonderli su Facebook, ma non sono certo abbastanza preparato per entrare in un argomento geopolitico così complesso.
Parlerò di noi, invece. Noi che siamo quelli che non hanno saputo dargli, a Firenze, quello di cui aveva bisogno: un senso. Quanta gente scappa ogni giorno dalla nostra città e dal nostro paese perché non sappiamo dargli un senso? La nostra vita fatta di aperitivi e sorrisi falsi… noi abbiamo, nonostante tutto questo, noi abbiamo, mescolata fra di noi, della gente come Lorenzo Orsetti. Che è oro. E noi, invece di prenderli ad esempio, li prendiamo a calci. Li prendiamo in giro. Li chiamiamo con finti complimenti beffardi come “sognatori”, “persone troppo sensibili”… Fino a che non devono trovare altri spazi per essere le persone grandiose che sono. Perché, diciamocelo: qui da noi è davvero difficile essere qualcosa più che grossi bebé consumisti o, nel caso migliore, animali vuoti e viziati che si puliscono la coscienza parlando di grandi ideali. Non voglio dire che sia impossibile. La terza via c’è sempre, e seguirla forse è possibile anche nel nostro mondo, anche nella nostra città. C’è chi ci riesce. Credo. Spero. Ma la nostra società è fatta, nella sua maggior parte, di gente che Nietszche ha ben definito nel brano “l’ultimo uomo”:
Dirò loro di ciò che più è spregevole: cioè dell’ultimo uomo. E Zarathustra, allora, disse al popolo cosi: «È giunto il tempo che l’uomo si proponga una meta. È giunto il tempo che l’uomo getti il seme della sua più alta speranza. Il suo terreno è abbastanza ricco, oggi, per ciò. Ma un giorno sarà impoverito e sfruttato e non potrà dar vita a nessun albero di alto fusto. Guai! Si appressa il tempo in cui l’uomo non lancerà più la freccia della sua brama oltre l’uomo, e la corda del suo arco avrà disappreso a sibilare! Io vi dico: bisogna aver ancora un caos in sé per poter generare una stella danzante. Io vi dico: voi avete ancora del caos in voi. Ahimè! Prossimo è il tempo in cui l’uomo non potrà più generare nessuna stella! Ahimè! Prossimo è il tempo del più spregevole tra gli uomini, che non saprà né anche più disprezzare sé stesso. Ecco! Io vi mostro l’ultimo uomo. Che cosa è amore? Che cosa è creazione? Che cosa è desiderio? Che cosa è l’ideale? — così chiede l’ultimo uomo, e ammicca. La terra sarà allora divenuta piccina, e su di essa saltellerà l’ultimo uomo che rimpicciolisce ogni cosa. La sua razza è tenace, come quella della pulce; l’ultimo uomo vive più a lungo di tutti. Noi abbiamo inventata la felicità — dicono gli ultimi uomini. E ammiccano. Essi hanno abbandonate le regioni dov’era dura la vita: giacché han bisogno di calore. Si ama ancora il vicino e ci si stropiccia a lui, perché si ha bisogno di calore. L’ammalarsi e il diffidare è per essi un peccato: camminano guardinghi. Un folle è colui che ancora incespica nei sassi o negli uomini! Di quando in quando un po’ di veleno: ciò produce sogni gradevoli. E molto veleno alla fine, per procurarsi una piacevole morte. Si lavora ancora perché il lavoro è uno svago. Ma si ha cura che lo svago non esalti troppo i nervi. Non si diviene più né poveri né ricchi; entrambe queste cose danno troppo fastidio. Chi vuole ancora di regnare? Chi vuole obbedire? Nessun pastore: un sol gregge! Ognuno vuole la stessa cosa, ognuno è la stessa cosa: chi la pensa diversamente ripara volontario al manicomio. «Una volta tutto il mondo era pazzo — dicono i più furbi, e ammiccano. Noi siamo assennati e sappiamo tutto ciò che è avvenuto; abbiamo dunque diritto di deridere ogni cosa. Si litiga ancora, ma ci si riconcilia presto — per non guastarci lo stomaco. Si hanno i propri svaghi del giorno, e quelli della notte; ma si tiene in gran conto la salute. Noi abbiamo inventato la felicità — dicono gli ultimi uomini, e ammiccano».
Noi siamo gli ultimi uomini, proprio noi, ed è questo che è grave quando penso a Lorenzo: il fatto che uno grande come lui non abbia trovato posto tra gente piccola come noi. Lorenzo Orsetti, potrebbe – e secondo me dovrebbe – essere per noi occasione di autocritica. Tiziano Terzani lo diceva bene:
Il mondo è cambiato. Dobbiamo cambiare noi. Innanzitutto non facendo più finta che tutto è come prima, che possiamo continuare a vivere vigliaccamente una vita normale. Con quel che sta succedendo nel mondo la nostra vita non può, non deve, essere normale. Di questa normalità dovremmo avere vergogna.
Lorenzo Orsetti, mi pare, con dignità e determinazione, si è vergognato. E ha rimediato. Non siamo più in un mondo in cui ci possiamo permettere egoismo e particolarismo, comodità e pigrizia: l’eccesso di comodità e pigrizia ci stanno uccidendo. Come gli ultimi uomini di Nietzsche ci stiamo adagiando sulla tecnologia, sulla facilità delle relazioni umane (sempre quelle facili, mai quelle giuste, che comportano fatica e sudore!).
Lorenzo ha saputo vivere e morire con onore, questo lo sappiamo tutti, questo è certo, Lorenzo ha saputo vivere dando un senso a una vita che rischiava di essere vuota, asfittica. Lorenzo Orsetti è riuscito a smettere di sopravvivere. Si è alzato in piedi. Ha deciso di vivere. E lo ha fatto. Tutto questo lo sappiamo. Tutto questo è utile e doveroso celebrarlo, ricordarlo, tramandarlo. Ma è inutile rattristarsi per la sua morte (ci ha detto lui stesso che non dobbiamo), ed è anche inutile essere fieri di lui come alcuni in pubblico sembrano essere: quello che ha fatto lo ha fatto lui, nessun altro ne ha merito. Possiamo essere contenta di averlo incontrato, al massimo. Ma se è stato un eroe, lo è stato è nonostante noi, non certo a causa di nessuno di noi.
La vera domanda, l’unica domanda utile, è: Lorenzo Orsetti ha saputo avere senso. Noi, ci riusciremo? Ci stiamo almeno provando? Sul serio?
Percepiamo tutti (proprio tutti forse no, ché ci son sempre dei caproni che lo chiamano “terrorista”, ma lasciamo andare…) la grandezza limpida e semplice di Orsetti: personalmente l’ho definito un “Uomo” e tanto mi basta a definirlo.
Ma non è di lui che voglio scrivere adesso ma della pretesa di poter/saper/dover dire agli “altri”, a tutti gli altri come si vive e come non si vive, cosa è giusto e cosa sbagliato, cosa nobile e cosa deprecabile…
Sono il primo a soffrire il “mondo di plastica” che mi/ci circonda e ci inonda, vorrei anch’io rapporti interpersonali autentici e pensieri elevati, approcci alla vita pregni di umanità e di verità (intesa nel senso di autenticità)…
Ma la società che “hanno” costruito è altra cosa: fatta di superficialità, gretto interesse, minimalismo interiore, ottusità di idee, conformismo trionfante ad ogni livello, capace di cambiar forma e colore ad ogni istante pur di controllare sempre tutti e ricondurli regolarmente all’ovile ad ogni tramonto di pubblica idiozia…
Non mi piace tutto ciò, di più: mi disgusta e mi fa sentire “alieno”… Ma è così che “hanno” disegnato il viver comune e, personalmente, non mi sento di far alcuna predica né di indicare nessuna “strada della salvezza” a nessuno: mi basta e avanza cercare la mia strada e la mia salvezza! Saluti.
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