STEVE CUTTS: MAN e HAPPINESS

Steve Cutts è un eccellente regista di cortometraggi. Riesce in poco meno di cinque minuti a catturare un frammento di mondo, a ridurre ai suoi termini fondamentali la società post–moderna, avvalendosi del grottesco, delle forme cinematografiche del psogos, della satira sociale e politica. Riesce a trasmettere un’emozione e a far fremere le corde della coscienza assopita. Ed è questo, a ben vedere, il ruolo di ogni prodotto cinematografico che si rispetti.
All’interno della sua non troppo vasta (e, peraltro, non sempre eccelsa) produzione fanno spicco Man (2012) e Happiness (2017), visionabili gratuitamente su YouTube.

In Man veniamo coinvolti nel tragico promemoria di 500.000 anni di storia umana. Il regista, in chiave squisitamente marxista, rifiuta un’analisi della sovrastruttura in tutte le sue poliedriche fasi evolutive (che per altro avrebbe richiesto troppo tempo) e preferisce inquadrare la struttura economica fondante, con particolare attenzione all’aspetto ecologistico. Tanto le comunità primitive di cacciatori–raccoglitori quanto il capitalismo odierno hanno teso e tendono a piegare l’ordine naturale degli ecosistemi per la cinica logica di profitto e di controllo antropocentrico dell’ambiente circostante. Ma ormai la coscienza moderna esige una cura particolare per “l’astronave Terra”, la quale, proprio come vuole questa fortunata metafora, non è parco di risorse illimitate, ma finite e strettamente circoscritte a un precario equilibrio ecologico e ambientale. Compromettendo l’ambiente, l’uomo prepara la sua fine, per riprendere le considerazioni di Hans Jonas (Il principio responsabilità, 1979, Einaudi).
Deforestazione selvaggia, distruzione di incredibili risorse materiali naturali, crescita della quantità di anidride carbonica e altri inquinanti nell’atmosfera con conseguente aumento dell’effetto serra, metalli pesanti nell’aria, polveri sottili, materiali cancerogeni (come l’amianto), rifiuti tossici smaltiti in modo scorretto, inquinamento dei mari concorrono tutti a peggiorare la qualità della vita dell’uomo e a danneggiare irreparabilmente l’ambiente. Nel corso della storia della Terra le temperature medie e la concentrazione atmosferica di CO2 hanno mostrato cicli irregolari di aumento e diminuzione in periodi di tempo estremamente lunghi, mentre oggi si assiste a un aumento delle temperature medie molto rapido.
I rischi legati al problema ecologico hanno spinto la comunità internazionale ad elaborare un gran numero di trattati internazionali vincolanti tutti i paesi aderenti nel contenimento delle emissioni di anidride carbonica e nella conversione della propria industria a modelli economicamente ed ecologicamente sostenibili. Per citare l’enciclica Laudato sì (2015) di Papa Francesco: “Il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine. […] La miope costruzione del potere frena l’inserimento dell’agenda ambientale lungimirante all’interno dell’agenda pubblica dei governi.”
Si tratta, invece, dagli Accordi di Parigi sul Clima (COP21) del 2015, di affermare l’idea che non solo grandi Nazioni ma anche singoli individui siano personalmente e collettivamente responsabili del futuro dei loro figli. L’azione di responsabilità, dai cittadini alla classe dirigente di ogni paese, dovrà indirizzarsi non più solo sul raggiungimento di un benessere presente (comunque mai redistribuito in modo davvero equo e sostenibile), ma anche (e forse soprattutto) alla preservazione del benessere delle future generazioni, nel rispetto del nostro pianeta. Per citare il celebre proverbio degli Indiani d’America: “Non ereditiamo la terra dai nostri padri, la prendiamo in prestito dai nostri figli”.
Il titolo – Man – non articolato rappresenta la natura immarcescibile ed eterna dell’essere umano, dalla preistoria alla moderna civiltà dei consumi, delineata da Cutts come intrinsecamente e atavicamente crudele e prevaricatrice nei confronti dei suoi simili e dell’ambiente, secondo una definizione che avrebbe fatto piacere a Thomas Hobbes. Ma, direbbe Gunter Anders: “L’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via tratta se stessa come un’umanità da buttar via” (L’uomo è antiquato, vol. II, p. 35, 1980).


In Happiness assistiamo, invece, all’affresco dissacrante della moderna società liquida dominata in modo pervasivo e totalitario dal consumismo conformante e annichilente (e qui il pensiero corre immediatamente a Modernità liquida e Vita liquida di Zygmunt Bauman). La metropoli moderna – convulsa e individualistica – è abitata da squallidi ratti che impersonano gli esseri umani. Il cortometraggio si apre con una folla oceanica di topi che si riversa in una stazione della metropolitana affollata al di là dell’inverosimile e abbacinata da innumerevoli schermi pubblicitari che invogliano l’insaziabile consumatore a trovare in questo o quel prodotto la via della “felicità”. Per citare le prime righe del capitolo II del romanzo Lire 26.900 (Feltrinelli, Milano, 2001) che l’autore francese Frederic Beigbeder mette in bocca al suo alter–ego Octave, anch’egli pubblicitario: “Ebbene sì, inquino l’universo. Io sono quello che vi vende tutta quella merda. Quello che vi fa sognare cose che non avrete mai […] Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma”.
Il controcanto consumistico di Happiness mette invece in mostra la nuova comunità credente convertita alla teologia plutocratica che sbava davanti a un cinema e annienta il prossimo (sempre inquadrato come “il nemico”) in un centro commerciale durante il Black Friday e il Cyber Monday, facendo di tutto pur di mettere le mani sul prodotto desiderato. Smarrito ogni riferimento religioso e morale, l’uomo post–moderno può definirsi solo entro il recinto dei beni materiali di cui si è impossessato (per usare le parole di Trimalchione nel Satyricon, 77,6: “Sei ciò che hai, assem habeas, assem valeas; habes, haberis). Ma postulata la transitorietà delle cose come condizione del loro esistere sul mercato (si pensi all’obsolescenza programmata come “data di scadenza” obbligata del prodotto), allora è necessario continuare a consumare freneticamente, divenire schiavi della cupido habendi (della bramosia di guadagno), in un vano tentativo di auto–individuazione. Così assistiamo all’alienazione del protagonista attraverso alcol e droghe che culmina con l’alienazione per antonomasia filtrata attraverso l’ossessione per il denaro che spinge il povero ratto a essere obbligato a lavorare alla tastiera del computer da una trappola per topi posta sopra la sua scrivania.
Il dramma consumistico si lega, nel cortometraggio, a quello conformistico. La società attuale pretende l’omologazione forzata di tutti gli individui come condizione indispensabile della loro esistenza in una nuova e più pervasiva forma di totalitarismo economico–sociale. Per citare La nuova prefazione al “Mondo Nuovo” scritta da Aldous Huxley (1932): “Non esiste, beninteso, alcuna ragione perché i nuovi totalitarismi somiglino ai vecchi. Il governo basato su manganelli è plotoni di esecuzione, carestie artificiali, imprigionamenti di massa è non soltanto disumano […], ma provatamente inefficiente e questo, in un’era di tecnologia avanzata, è un peccato contro lo Spirito Santo. Uno stato totalitario davvero “efficiente” sarebbe quello in cui l’onnipotente comitato esecutivo dei capi politici e il loro esercito di direttori soprintendessero a una popolazione di schiavi che ama tanto la propria schiavitù da non dovervi neanche essere costretta”. E questo accade oggi perché, come scrisse John Stuart Mill in Sulla Libertà (1859): “Se la vita viene ridotta a un unico modello uniforme, allora ogni deviazione verrà considerata empia, immorale, addirittura mostruosa e contraria alla natura. Gli individui diventano ben presto incapaci di concepire la diversità allorché per qualche tempo abbiano perso l’abitudine di vederla”. Ecco perché l’ “uniformazione” (Einformigkeit) è necessaria per far sì che questa società consumistica e post–capitalistica sia ritenuta dai popoli non già uno dei vari mondi possibili ma l’unico e perciò stesso il migliore dei mondi possibili, parafrasando Leibniz, come l’inevitabile condizione naturale dell’uomo.
Infine, alcune considerazioni tecnico–cinematografiche sulle scelte artistiche di Cutts, che paiono in effetti molto interessanti e significative. In primis la scelta di un predominante colore grigio che impasta tutta la pellicola, sia in Man che in Happiness. La scelta, probabilmente un richiamo artistico ai primi cortometraggi Disney degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, ha però anche una notevole valenza simbolica. Esso rappresenta mediocrità, accidia, fiacchezza d’animo, remissività, perdizione morale e assurge a colour–symbol della nostra società, caratterizzata dall’ “apateismo” (neologismo coniato dal cardinal Gianfranco Ravasi) che non significa solo rifiuto di Dio, che è comunque una scelta radicale e ammirevole, ma è ignoranza e insensibilità verso Dio e il mondo, è il sentimento “betise” con cui Flaubert plasma il carattere di Charles in Madame Bovary (1856), quello con cui Ivan Goncarov (1812–1891) delinea il suo alter–ego Oblomov (1858), un provinciale dai tratti grassocci e femminei, che vive di rendita nella più assoluta inerzia, in dipendenza simbiotica con uno scorbutico servitore; è il sentimento (o meglio, l’assenza melanconica di sentimenti ardenti e romantici) della figura femminile alata in Melencolia I (1514) di Albrecht Durer; è, per riportare la classificazione operata da Giovanni Cassiano nell’opera De Institutis coenobiorum et de octo principalium vitiorum remediis (420 c.ca. d.C.), la fatale convergenza di otiositas, somnolentia, importunitas, desidia, rancor, pusillanimitas, amaritudo, desperatio, pervergatio, instabilitas, verbositas e vana curiositas.
Oggi il consumismo sfrenato perverte (nel senso etimologico del termine) il desiderio (che se lasciato libero di crescere è potenzialmente rivoluzionario) verso pseudo–soddisfazioni transitorie e inappaganti che conducono allo stato d’animo apatico e accidioso dell’uomo moderno, homo oeconomicus, che ormai da tempo ha dismesso le “passioni forti”. “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo!”, dice il Cristo Giudice nell’Apocalisse Giovannea (3, 15–17): “Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”. E continua “Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo”.
Originale, nella tecnica adottata da Cutts, anche l’elemento “grottesco”. Alla forte carica di realismo dei cortometraggi, evidente soprattutto in Happiness, si mesce la parodia del sublime musicale. Ambedue i cortometraggi, grotteschi e surrealistici, dal marcato carattere satirico e scommatico, osservano lo spettacolo della realtà e dei vari personaggi che ne occupano la scena con uno sguardo deformante che ne accentua i tratti grotteschi e li riconduce a tipologie satiriche ricorrenti, ma si avvalgono anche della sublime musica ottocentesca di Edvard Grieg (Mattino, Nella grotta del re della montagna, Peer Gynt) e Georges Bizet (Carmen: L’amour est un oiseau ribelle, atto I) a indicare la portata universale della condizione umana presa in esame, secondo una tecnica narrativa già impiegata in letteratura da Thomas S. Eliot nella Terra desolata (1922).
Cutts recupera dalla Poetica di Aristotele (1448b 25) la forma letteraria del psogos (biasimo), contrapposta a quella dell’enkomion (elogio), che comprende il violento attacco personale, ma anche una caratterizzazione ridicola e non completamente ostile di comportamenti umani diffusi, e seguendo un itinerario artistico che va dalla Batracomiomachia dello pseudo–Omero alle Operette morali di Leopardi, passando per i Dialoghi dei morti di Luciano di Samosata e I Colloqui di Erasmo da Rotterdam, approda a un genere cinematografico satirico tracimante di contenuti filosofici che nell’arco di pochi minuti sono in grado di restituire nuova luce e penetrante lucidità alla nostra analisi verso una contemporaneità tanto convulsa e inafferrabile.

Matteo Abriani

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